Con Les demoiselles d’Avignon, è noto, la ricerca artistica subì un improvviso balzo in avanti. L’opera che
più di tutte rappresentò uno spartiacque tra la cultura figurativa europea e il suo definitivo superamento
nasceva nella Parigi del 1906: città in continuo fermento, reduce dai fasti della Belle Époque e indirizzata verso il secolo della modernità. Rifacendosi alla semplicità di un formalismo tribale, Picasso metteva in discussione il culto della raffigurazione verista. Da quel momento, e in poco meno di un lustro,
l’arte europea cessò di rappresentare e riprese ad “essere”.
Con ciò mi preme sottolineare quel “riprese” visto che, fin dalle epoche più remote, l’opera d’arte non
assolve semplicemente al compito di rappresentare la realtà, ma tenta in particolare di suggerirne una possibile via d’uscita. La definitiva disgregazione della forma, non a caso - e secoli dopo i tentativi di “non finito”
michelangiolesco - giungeva successivamente la stagione del realismo ottocentesco. Picasso, di fatto, e più
marcatamente di altri in primis Braque che con lui condivise il primato cubista, consentì di evidenziare il senso
nascosto del volume plastico, elevando la linea di costruzione a elemento fondante dell’opera. La linea, entità
astratta e di fatto inesistente, divenne altresì protagonista definendo di per sé l’opera sia nella dimensione
costruttiva preliminare che in quella definitiva.
È dunque dalla linea, consuetamente destinata al disegno in qualità di stadio preliminare della pittura,
che vogliamo partire per analizzare un processo di destrutturazione dell’immagine che dalle prime prove
Picassiane ha portato alla sintesi futurista e alle conseguenti esperienze avanguardiste d’inizio Novecento. Se
infatti a Parigi si consumarono i primi vagiti dell’avanguardia internazionale, in Italia, col Futurismo, quelle
stesse ricerche si estesero ben oltre gli iniziali confini. Quando nel 1916 il Cubismo terminò la sua esperienza,
il Futurismo concludeva solo la sua prima fase, già avendo posto tuttavia le basi per una rivoluzione estetica
ben più ampia.
Con il Manifesto di fondazione del Futurismo (1909), Filippo Tommaso Marinetti dava al movimento appena ideato un’anima difficilmente incasellabile nelle maglie della storiografia, elogiando uno sviluppo tecnologico estendibile ad ogni epoca e società. Il testo redigeva una sorta di testamento per le generazioni a venire
con espressioni come: “il Tempo e lo Spazio morirono ieri”1, quasi a voler di fatto invalidare ogni barriera
cronologica e mostrando il Futurismo come naturalmente predisposto al superamento di se stesso. La prosecuzione della frase rendeva più esplicito l’intendimento: “Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già
creata l’eterna velocità onnipresente”. Non un semplice movimento quindi, piuttosto un sentimento di partecipazione al processo di modernizzazione della società tutta. Da quel 1909, i numerosi seguaci coniugarono
il pensiero tecnico-artistico a quello tecnico-scientifico originando una vera e propria estetica del progresso.
Ancora nel Manifesto di fondazione, Marinetti celebrava una serie di contesti a testimonianza dell’esaltante
momento storico: “Stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano […] locomotive dall’ampio petto, che
scalpitano sulle rotaie […] il volo scivolante degli aeroplani”. Con Giacomo Balla, poi, nel 1915, affiancato da
Fortunato Depero, il manifesto della Ricostruzione futurista dell’universo aprì ad un’espansione temporale e
geografica unica nel suo genere.
Tale espansione è stata celebrata a Parigi nel 2009, in occasione del centenario della nascita del movimento con una mostra in cui, pur prendendo in esame solo la prima stagione, si dimostrava ampiamente il
contributo reso all’avanguardia internazionale che proprio al Futurismo seppe guardare2.
Per analizzare il tema delle analogie tra futuristi e altri movimenti artistici, si riparte dunque da tale analisi,
richiamando il dato storico di un raggruppamento che ebbe nel Simbolismo, prima, e nel Cubismo, poi, la
spinta per aprirsi ad un più ampio e longevo confronto estetico. Innegabile la capacità d’invenzione fintanto
da arrivare, ma si vedrà più avanti, ad essere direttamente responsabile della nascita di alcune avanguardie
del secondo dopoguerra, prima fra tutte lo Spazialismo di Lucio Fontana.
Il corpo
Incamminandoci sulla strada delle possibili analogie tra Futurismo ed altri movimenti, si dovrà quindi partire
proprio da Picasso nel confronto tra il suo Standing nude female fugure, e lo Studio di ballerini per il Bal Tic
Tac di Giacomo Balla. Il tema della linea concorre qui proprio a definire la dimensione della fisicità, sia nel
caso della struttura geometrica che in quella del movimento. Picasso è coerente con la genesi cubista e l’idea
della scomposizione volumetrica benché nel 1946, data di realizzazione della suddetta opera, avesse ormai
superato la sua stessa avanguardia. Il nudo in questione riassume efficacemente quel tema di cui sopra, per
cui l’artista spagnolo restituisce dignità alla linea di costruzione mettendo in disparte i volumi e concentrandosi
solo sul dato strutturale. Le forme arcaiche esaltano il tema originario dell’elaborato, generando una sintesi
mentale prima ancora che tecnica.
Di fronte a questo lavoro, Giacomo Balla ci offre la possibilità di riflettere sul dato opposto: le forme dinamiche e fluide, infatti, contrappongono alla staticità cubista il tema del movimento. Le rigide linee destrutturanti
cubiste, divengono, nella visione futurista, quelle irriverenti e vivaci, già in primis interpretate da Boccioni
e orientate non alla definizione del volume, ma alla sua totale liberazione nello spazio. I danzanti balliani
compiono movimenti tracciando linee invisibili e definendosi come elementi totalmente astratti. In questo caso,
tuttavia, l’orchestrazione generale non si focalizza nel principio della costruzione, piuttosto in quello della
definizione ritmica.
Su tali spunti s’inseriscono altre analogie come Studio di ballerina di Mario Sironi e Le tango argentin di
Severini, ai quali viene contrapposto Femme assise di Fernand Léger. In questo caso la datazione delle opere
è contenuta tra 1912 e 1915, dimostrando altresì quanto cubisti e futuristi fossero in un continuo scambio di
relazioni. Sebbene nelle opere degli italiani il tema resti ancora il ballo, attività confacente nell’esprimere il
tema del movimento, si noterà come nel caso di Léger, dove la struttura d’insieme risulta ben più rigida, siano
ugualmente presenti segni di ricerca dinamica. Ciò è evidente nella definizione delle parti rotondeggianti del
corpo, la cui forma viene esaltata con particolare evidenza, concorrendo a rendere movimentata l’intera
composizione. Viceversa in Sironi, come in Severini e nonostante l’evidente tema del movimento, i corpi si
cristallizzano adducendo alle linee quegli stessi movimenti ma al tempo stesso costringendole in una sorta di
gabbia formale rigidamente costruita.
Ma se il confronto tra Cubismo e Futurismo dovesse risultare fin troppo scontato, sia qui, anche solo brevemente, da prendere in esame l’analogia tra Salotto giapponese, di Baldessari, e il Senza titolo di Mirò. Qui gli
elementi di confluenza finiscono per sintetizzarsi nell’andamento lineare di quest’ultimo, restituendo una sorta
di presenza mentale della forma e non più - o non solo - riferibile al mondo sensibile, ma piuttosto orientata a
suggerire il condizionamento sostanziale dell’invisibile. La forza plastica di Baldessari viene riassunta nell’invenzione lineare di Mirò, in una sorta si semplificazione necessaria a sottolineare il passaggio della forma
dalla condizione terrena a quella ideale.
L'oggetto
Fuori dal problema dei volumi, l’attività artistica si caratterizza come azione irradiante di emozioni. I futuristi svilupparono tale concetto partendo dall’osservazione del reale, per poi esaltarla in una dimensione
extrasensoriale stimolata dalla conoscenza di teorie scientifiche e filosofiche.
Nella Natura morta di Carrà, datata al 1913, il calice si riassume nella essenzialità delle due linee di contorno, azzardando la scomposizione della parte destra come probabile riflesso luminoso. In questo semplice
disegno si sente la forza dell’idea, capace di sintetizzare al massimo l’oggetto spingendolo verso la dimensione surreale e con ciò trovando sponda nel confronto audace con La verre di Max Ernst. In quest’opera del
1923 il surrealista antepone lo spettatore a un oggetto nella cui trasparenza si nasconde possibile un enigma.
In entrambi i lavori colpisce la presenza di una sorta di centro propulsore ipnotico, definito in qualcosa che si
può considerare una sorta di sole in Carrà e una forma centrale indefinibile in Ernst. Di fatto non importa cosa
sia, conta piuttosto la funzione destabilizzante per l’osservatore il quale, nell’uno e nell’atro caso, è costretto
al superamento formale per indagare il mistero celato dietro la forma stessa in qualità di elemento originario.
Ancora di un futurista e un surrealista appare significativo analizzare il confronto: Donna+luce+ambiente
di Enrico Prampolini e Nu a’ la flamme noire III di Andre’ Masson. Qui è significativo notare lo scarto tra la
costruzione geometrica del primo e la sinuosità del secondo. Il lavoro di Prampolini, datato al 1915, guarda
senza dubbio alla Francia, definendo in senso cubista il tema del movimento e razionalizzandolo in una composizione alquanto schematica. Ciò nonostante, tale attenzione trova la sua apertura nelle forme circolari o
ellittiche di rimando cosmico grazie alle quali facilmente riusciamo ad accostarci alla più fluida raffigurazione
di Masson dove la sinuosità corporale, insistendo sul linguaggio dell’indefinito mentale, innesca l’interferenza
tra visione e percezione. Prampolini, dal canto suo, a metà anni Venti entrava in contatto proprio con i surrealisti a Parigi, città nella quale si trasferì nel 1925. Già alle date di cui l’opera in esame, tuttavia, dimostrava
un’attenzione particolare per certe dinamiche non riferibili al mondo sensibile.
Con ciò si torna ancora alla tematica dell’invisibile che se nei surrealisti verrà posta in chiave psicologica,
nei futuristi viene considerata in ottica scientifica. Già a partire dal 1905 erano noti gli studi di Einstein sulla
relatività e il Futurismo non ne fu estraneo, riuscendo altresì ad interpretare il tema delle energie latenti nella
materia operando graficamente con le linee-forza di costruzione immaginifica. La realtà, s’iniziava a comprendere, non è solo ciò che vediamo, ma risiede soprattutto nelle energie nascoste e tale lezione, che vide
in prima linea Boccioni, sarà fondamentale negli anni a venire, portando Prampolini a quella visione cosmica
dell’essere che proprio nei surrealisti come Masson trovava sponda in qualità di visione panteistica del genere
umano. Tra scienza e cultura esoterica, nel primo quarto del Novecento si andava di fatto ridefinendo il tema
dei confini fisici, non più limitati alla concezione esteriore del corpo, ma vertendo, al contrario, su concetti
cerebrali che in particolare nell’opera esaminata appaiono pertinenti ad una visione cosmica d’insieme.
I ritmi del colore
L’ambito in cui il Cubismo non ebbe parte in causa, fu senza dubbio quello del colore. Si dovrà attendere
la declinazione orfica per vedere la componente cromatica subentrare, ma a quel punto l’analogia col Futurismo era già una realtà consolidata. Il movimento italiano, al contrario, espresse da subito il bisogno di colore,
essendo tale elemento manifestazione della parte emotiva e, conseguentemente, dinamica.
Il Futurismo seppe unire le due istanze - formalismo e cromatismo - prendendo spunto dalla lezione cubista e
arricchendola dell’energia coloristica. D’altra parte il colore fu l’eredità lasciata dai maestri simbolisti, Previati
in primis, ma certamente con esso Segantini e Pellizza da Volpedo. Nella Città che sale, Boccioni aveva già
dato prova di ciò, coniugando le istanze formali a quelle cromatiche, tanto più che il Futurismo cercava proprio di impossessarsi del mistero dell’energia, esaltando il valore dell’elettricità e con esso una nuova visione
della storia indirizzata al progresso.
L’analisi scientifica della luce spinse alcuni di essi verso tentativi di estetizzare l’invisibile, facendo capo alle
teorie scientifiche e alla moderna ottica.
Esplicativo appare in questo senso l’analogia tra il Giacomo Balla delle Compenetrazioni iridescenti e il
Kandinsky del 1932 dal titolo Mittengrun. In entrambi i casi si tratta di acquarelli e tecniche miste su carta, ed è
evidente quanto il processo astrattivo della forma passi attraverso l’analisi spettroscopica del fascio luminoso.
Balla giunse alla scomposizione analitica della luce trovando quei principi di forma e ritmo che, negli stessi
anni, incontrava anche Kandinsky partendo dai temi della musica. Risulta altresì significativo notare come i
colori si intersechino tra lo spettro luminoso del futurista e quello dell’astrattista e certo è che il russo seppe
tramutare gli elementi dell’opera in protagonisti, mentre in Balla il tutto restava ancorato all’oggetto di partenza. Ciononostante, il risultato appare quanto mai prossimo e per questo ancor più efficace nel dimostrare
l’astrazione come componente stessa dalla figurazione.
Ma anche l’analogia tra Dissolvimento d’autunno, sempre di Balla, con La racine noire di Léger ci aiuta ad
approfondire il tema del colore. Nell’artista romano l’insieme si concentra sulla prevalenza cromatica preoccupandosi di esprimere il contenuto paesaggistico nella predominanza delle tonalità calde, ma trovando ulteriore forza nel contrasto con quelle fredde. In Léger la natura è ugualmente ripresa, ma nella sua componente
sotterranea. Qui le tonalità restano ancorate ad una sostanziale monocromia non prevalendo le caratteristiche
speculari, ma agendo come un’unica suadente sinfonia. È ancora la natura ad essere sottoposta ad analisi e
mentre nel primo caso l’esplosione di colori ne sottintende la componente vitale, nel secondo si sofferma su
quella germinale, non meno importante poiché riferibile allo stadio primario e quindi addirittura potenzialmente animato da un dinamismo di rinascita come riscontrabile anche in Balla.
La forma pura
Si giunge così allo stadio successivo, rappresentato dalla forma pura.
Se, come detto, con Picasso la linea inizia a prevalere sulla forma, con il già citato Kandinsky avviene il
definitivo salto verso la sua autonomia espressiva. Anche in questo caso, il Futurismo aveva intrapreso una
strada rivelatasi nel tempo autonoma. Già con le prime sperimentazioni di Romolo Romani e poi con l’analisi
geometrica delle compenetrazioni iridescenti di Balla, ci si accorgeva di una realtà formale astratta presente
all’interno della materia inanimata. Un ritmo di fondo che estrapolato dal contesto d’origine poteva vivere
autonomamente nella sua dimensione di purezza.
Parallelamente, la stessa nozione emergeva proprio in Kandinsky in riferimento alla musica, come pure
accadeva nel Futurismo grazie a Russolo, il quale si poneva in relazione al rapporto tra emotività musicale e
pittorica esattamente come in Europa stavano facendo nomi eccentrici quali il lituano Mikalojus Čiurlionis e il
ceco František Kupka. Quest’ultimo, in particolare, lo troviamo in tale contesto con un’intensa Composition del
1920, da accostare al Gino Galli di Riflessi in un occhio, in cui il moto verticale delle linee esprime chiaramente
quel senso di vibrazione atmosferica concernente la relazione tra emotività psichica e influsso musicale.
Giungiamo così al confronto tra Linea di velocità+cielo+rumore di Giacomo Balla con Ohne titel di Kandinsky dove il tema della linea si manifesta come definitiva autonomia della forma geometrica. Quest’ultima risulta
di fatto ormai in grado di narrare il senso del lavoro artistico, indipendentemente dalla riconoscibilità formale.
Benché in Balla abbia una certa importanza anche il colore, sembra qui prevalere il senso di movimentazione
geometrica entro ritmiche che in Kandinsky appaiono ampiamente più statiche, ma non meno efficaci. La staticità meccanica di quest’ultimo è infatti solo apparente, giocando con sapienza nella ritmica interna delle forme
triangolari e definendosi nella ruota centrale come asse immaginario di movimento. Quello stesso evidenziato
da Balla che diviene qui potenziale eppure non meno evidente. Resta innegabile il problema della datazione,
poiché nel caso del futurista si è nel 1913, pertanto un momento di forte fiducia nel progresso, mentre nel secondo siamo già al 1932, in piena stagione di Ritorno all’ordine e ricerca di razionalità formale eppure, nella
meccanica di fondo, tale confronto indica la sostanziale rivoluzione Kandinskyana.
Spazio dilatato, distorto e ricostruito
Analizzate le componenti linguistiche di corpo, oggetto, forma e colore, fondamentali per definire i termini
della svolta avanguardista d’inizio Novecento, passiamo al tema finale di questo percorso, quello relativo
alla modificazione dello spazio. È questo, in realtà, il dato più importante da analizzare - e al quale, non a
caso, dedicheremo più attenzione -, poiché quello che più nel corso degli anni ha condizionato le avanguardie
internazionali.
Non si tratta di un aspetto riguardante la singola opera, ma quelle stesse interazioni innescate col contesto
fisico circostante. A partire dalla fase sintetica del Cubismo, quando il collage ricostruiva la realtà oggettuale
attraverso elementi tratti dalla vita quotidiana, per passare alle compenetrazioni futuriste in cui le sensazioni
divenivano forma interagendo tridimensionalmente nella composizione, si è di fronte a una nuova concezione
dell’opera come elemento d’interazione tra spazio reale e spazio immaginario. Ancora una volta si dovette
alla scienza del XX secolo tale rivoluzione, non solo la fisica moderna, ma con essa la biologia, la chimica,
l’astronomia per le quali fu decisivo il potenziamento di strumenti d’osservazione come microscopi e telescopi, grazie ai quali s’intraprendeva una seria indagine sull’immensamente piccolo e il suo diretto opposto.
Si dovettero, d’altra parte, ai moderni studi sulla luce quei risultati che da Seurat e Signac portarono alle
interpretazioni astratte di un Delaunay, esperimenti e studi avvalorati dallo sviluppo massiccio delle tecniche
fotografiche e cinematografiche.
In quei decenni continue scoperte e trasformazioni, anche lo spazio dell’opera divenne “relativo”. Il papier
collé cubista definì per primo tale problema risolvendolo nella “ricostruzione” di quella realtà che fino a poco
prima aveva contribuito a scomporre. Nella ben nota Natura morta con sedia impagliata, del 1912, Picasso
intuì la possibilità di portare fisicamente oggetti dallo spazio reale nell’opera, mentre Boccioni, l’anno precedente, aveva dipinto La strada entra nella casa, preludio a tutta una serie di opere tra cui la ben nota Forme
uniche di continuità nello spazio, dove lo spazio dell’opera interagiva direttamente con quello esterno in una
sorta di scambio costante tra la realtà immaginata e quella vissuta.
Per i cubisti, tuttavia, il tema si risolse nella breve stagione sintetica, terminando a ridosso della Guerra nel
1915, al contrario per il Futurismo tale scoperta fu l’inizio di una vera rivoluzione portando, a cavallo tra anni
Venti e Trenta, alla nascita dell’Aeropittura. Tra i protagonisti ci fu Gerardo Dottori che grazie alle sue visioni
aeroplaniche, ideate per la verità al principio dei Venti, seppe realmente spostare il punto di vista artistico
dalla terra al cielo.
Nel caso specifico, l’analogia tra il suo Ciclista, e L’Equipe de Cardiff di Robert Delaunay, ci introduce a
quella dimensione discorsiva dello spazio interno dell’opera la cui spinta iniziale si dovette alla tecnologia
dei mezzi di locomozione. Il Ciclista di Dottori richiama lo stesso tema che nel 1913 aveva sviluppato proprio
Boccioni mostrando come le forme in movimento subiscano una distorsione ottica. Come noto, tali risultati
furono stimolati dalla fotografia, capace di fissare lo scorrere del movimento e tra i futuristi, a tale proposito,
fu decisiva la presenza dei fratelli Bragaglia, le cui sperimentazioni sul fotodinamismo costruirono un volano
anche per le parallele sperimentazioni nelle arti visive.
Va ben detto, d’altra parte, che essi furono a loro volta preceduti da pionieri della fotografia in movimento come Edward Maybridge o Étienne-Jules Marey, quest’ultimo ideatore del fucile fotografico, come pure
Charles-Émile Reynaud che grazie allo sviluppo del prassinoscopio stava spianando la strada alla decisiva
rivoluzione cinematografica.
Tornando all’analogia tra Dottori e Delaunay si noterà come nel Ciclista la composizione s’innesti all’interno di uno spazio dilatato in cui la distorsione paesaggistica accentua il senso di velocità, esaltando il movimento attraverso la lezione boccioniana e, contestualmente, balliana delle linee-forza. Proprio la deformazione
paesaggistica sarà fondamentale per l’Aeropittura quando, ancor più arditamente, gli scenari si torceranno
sotto l’effetto del movimento aeroplanico. Non si trattava più di percepire il movimento, ma trovarcisi dentro,
assorbiti in un contesto di percezione in cui da spettatori si doveva esser coinvolti addirittura fisicamente. D’altro canto, il mito della macchina era maturato nella la consapevolezza di aver ideato un mezzo al cui interno
l’essere umano velocizza sé stesso, modificando parallelamente la percezione del mondo circostante. I ciclisti,
e parallelamente i motociclisti, furono per Dottori la risposta meccanica alla necessità di soggetti in grado di
esprimere il tema della velocità, risultando propedeutici a quella visione aeroplanica di cui sopra e manifestando già tra 1913 e 1914 un paesaggio distorto e dilatato.
Dai cieli terrestri a quelli astrali il passo fu breve, in quest’ultimo caso grazie all’intuizione di Enrico Prampolini, grazie al quale lo spazio dilatato terrestre divenne cosmico, preparando così la strada, poco più tardi,
allo “spazio spazialista” di Lucio Fontana e infine giungendo a quello installativo, ancor più estremo, delle
avanguardie del secondo Novecento.
Il caso di Robert Delaunay, in rapporto a Dottori, ci invita a riflettere su quel passaggio tra Cubismo e Futurismo avvenuto in Europa all’indomani della nota mostra alla galleria Bernheim-Jeune di Parigi nel 1912 e per
l’appunto evidenziato nel 2009 dalla citata mostra al Centre Pompidou. In L’Equipe de Cardiff, è ancora un tema
legato allo sport la scintilla che consente di analizzare la deformazione ambientale secondo dinamiche di movimenti esasperati. Se in Dottori lo spazio si dilata orizzontalmente, esprimendo il senso di una percezione fisica
dell’azione, in Delaunay lo stiramento delle forme risulta verticale, mostrando in questo caso il moto ultraterreno
a cui tutte le avanguardie del primo Novecento guardavano. Non a caso, la genesi simbolista del pensiero ascendente la si ebbe ancora nella Parigi di fine Ottocento con la nascita dei Salon de la Rose+Croix (1890 - 1897) il
cui ideatore Joséphin Péladan ebbe a scrivere di come l’arte dovesse, prima di tutto, “rendere visibile l’invisibile”.
Affermazione orientata a stimolare un’idea “ascensionale” del processo artistico ideativo che proprio nei
futuristi si manifesterà concretamente attraverso l’Aeropittura, ma che in Delaunay sarebbe andato verso quegli
studi sul disco solare che lo avrebbero orientato anch’egli al formale superamento della figurazione.
Su questo stesso tema, d’altra parte, si è già accennato all’importanza di Prampolini, in virtù di quella
spinta al sorpasso fisico che nel suo caso è da riferirsi a quello atmosferico
5. Ma è proprio dal collage di cui
abbiamo inizialmente parlato che partiamo per tale analisi: ci riferiamo in particolare all’analogia tra il suo
Ritmi spaziali, accanto a quello di Carrà, Cavallo e cavaliere, in relazione al dadaista Kurt Schwitters e il suo
Equisite. Già nel 1913, Prampolini rifletteva sulla possibilità di “interferire” con la realtà attraverso una “pittura
di oggetti” che sarebbe nel tempo maturata nel polimaterismo. La sua visione cosmica rifletteva le materie in
quanto elementi capaci di mutare la propria essenza proprio nel momento dell’inserimento nell’opera. Prampolini non operò mai separatamente dalle tradizionali posizioni futuriste, avendo come primo obiettivo quello
di ribadire il primato dell’italianità sulla cultura europea. Ciò riguarda proprio la questione della materia già
presente nelle teorie di Boccioni fin dal 1914. Quest’ultimo dichiarava di come al momento dell’ingresso nel
tessuto pittorico, un qualsiasi elemento materico cambiasse il proprio status originario, non facendo più parte
della realtà di provenienza, ma partecipando della nuova emotività espressa dall’opera d’arte e mutando sé
stesso e il suo stadio comunicativo.
Il polimaterismo di Prampolini verte proprio sull’acquisizione di frammenti di realtà collocandoli nella dimensione metaforica del dipinto: un sasso può così incarnare lo stesso valore esistenziale di un qualsiasi
elemento minerale presente nel cosmo. Nel caso di Schwitters, invece, il collage appartiene all’ambito della
memoria, lo spazio in questo caso si dilata tanto in chiave fisica quanto mentale, ma se per il futurista la dimensione mentale è quella della relazione con la realtà cosmico-spirituale, per Schwitters appartiene all’ambito
del tempo. Nel suo lavoro più famoso, e mai concluso, il Merzbau, raccoglieva oggetti trovati, alcuni appartenuti ad amici, costituenti una traccia del suo stesso passaggio. Si trattava essenzialmente di “incontri”, tanto
da permettere all’opera di rappresentare una sorta di contenitore di memoria dilatando lo spazio nel tempo
e inglobando lo spettatore letteralmente al suo interno.
Ancora nella stessa analogia, passando invece a Cavallo e cavaliere di Carrà, si verifica una singolare convergenza di stili mostrandosi affine alla condizione dilatativa dottoriana del Ciclista, ma arricchita dal collage
come appunto in Prampolini e Schwitters. Il tema della modificazione spaziale e oggettuale si condensa qui
magistralmente nell’insieme, esprimendo il dato ambientale centrifugo da un lato e quello oggettuale centripeto dall’altro. S’innesca dunque una sorta di moto costante in cui la realtà viene modificata ritmicamente in
“uscita” e in “entrata”, come disgregazione e ricomposizione continua d’insieme.
Non sarà casuale, pertanto, una seconda analogia riferibile a Carrà quando il suo Studio per sobbalzi
di una carrozzella viene messo accanto al più sintetico Hier der bestellte wagen di Paul Klee (pag. 56-57). Il
tema è ancora quello del mezzo meccanico che deforma la percezione, ma se nel futurista rimane invariato
quel concetto dilatativo, valido anche in Cavallo e cavaliere, per l’astrattista si tratta invece di inserirsi in una
condizione di arcaica rappresentazione della modernità. D’altra parte, non possiamo anche qui ignorare la
considerevole distanza cronologica tra i due elaborati, spingendoci pertanto a riflettere non in senso associativo, ma piuttosto valutando i cambiamenti di paradigma storico in campo. Nel caso di Carrà siamo nel 1911,
ancora una volta, dunque, di fronte alla più cieca fiducia nel progresso vissuta con emotività tale da spingere
i giovani di allora - l’artista aveva trent’anni - a motivare la propria opera quasi esclusivamente nei termini di
spinta in avanti. Nel 1935, al contrario, quando si data l’opera di Klee, quel progresso viene letto in termini
contrari e lo stesso Carrà ne fu esempio magistrale, essendo tra quei futuristi che, dopo la stagione eroica
1909-1915, intrapresero un percorso totalmente opposto. Nel 1934, ad esempio, dipinse l’opera Partita di
calcio dimostrando come, nonostante tornasse su temi di sport e dinamismo, le figure e l’intera composizione
risentivano immancabilmente della solidità statuaria appresa negli anni del Ritorno all’ordine. Ma riprendendo il discorso su Klee, sia sufficiente considerare come appunto, in questo caso, l’analogia tra i due si risolva
nella comparazione meccanica del moderno mezzo di locomozione mostrando chiaramente la divergenza
d’approccio, manifestata in virtù di epoche culturali ben diverse.
Sia infine consentito di chiudere tale analisi - pur sommaria, vista la notevole mole di spunti forniti - con un’analogia tra le più singolari: l’acquarello di un artista anonimo allievo dell’atelier di Balla e il Lyonel Feininger
dalla simile tecnica e dall’identico titolo.
Si tratta soprattutto di una valutazione di metodo critico, considerando in questo specifico caso non soltanto
la vicinanza tematica tra i due elaborati, benché nel Feininger manchi la spinta dinamica tipicamente futurista,
ma la possibilità di considerare il Futurismo come vero protagonista poiché capace di affibbiare riconoscibilità
a figure rimaste senza nome nella storia. L’opera dell’anonimo si presenta con le tipiche caratteristiche di dinamismo balliano, determinando la diretta derivazione dallo studio del maestro e pur non concretizzandosi nel
nome specifico di un qualche autore consolidato. Ciò nonostante riesce ugualmente a fronteggiare l’elaborato
di un artista come Feininger, al contrario ben riconoscibile e solidamente radicato nel suo stile. Appare notevole la comparazione della parte alta in entrambi gli elaborati, attestandosi specularmente come diametralmente
opposti, nell’estrema varietà di moto per il futurista e in quella esasperata geometrizzazione delle nuvole in
Feininger.
Con tale provocatoria analogia si definisce dunque in chiusura quell’ambizione che già fu di Enrico Prampolini nel 1922 quando, battendosi per dichiarare il primato futurista sull’intuizione della macchina (ma che
in verità sottintendeva un primato ben più ampio) sottolineava come già negli anni Dieci fossero state previste
dai futuristi situazioni che, nel decennio successivo, avrebbero coinvolto l’Europa intera. Tale dibattito resta
ancora oggi foriero di spunti riflessivi come suggerisce la presente mostra Analogie, meritando in futuro appropriati approfondimenti e ulteriori riflessioni.