FIGURE DELL'INFANZIA (CON GIOCATTOLI)
Daniela Fonti
Gesù Bambino non gioca quasi mai nelle innumerevoli immagini che gli sono state dedicate dall'arte occidentale;
tutt'al più si balocca con un rametto di corallo appeso a un
monile d'oro al collo della Vergine Madre. Comunque rara in
epoca medievale, la rappresentazione dell'infanzia si lega per
lo più al Bambino Divino che, anche se ancora strettamente avvinto in fasce, è in grado di tener testa ai Dottori nelle
dispute al Tempio. Ma bambini intenti al gioco sono rarissimi, se non assenti, anche dalle pagine delle miniature o dalle
tavole quattro-cinquecentesche, e poi – giù di seguito
– dai quadroni barocchi, dalle immense tele settecentesche; semmai
sono cherubini svolazzanti in un tripudio di nuvole. La rappresentazione di bambini e giovinetti inizia ad apparire nei secoli XVI e XVII legata al ritratto dinastico: nella Francia borbonica gli eredi Infanti sono rappresentati già con le insegne
del potere che saranno chiamati a rivestire più tardi; ammantati di ermellino non tengono in mano giocattoli ma scettri.
Non sono veri bambini ma simboli rimpiccioliti del potere
che, e accade assai spesso, non raggiungeranno l'età adulta
per regnare. Non diversamente, nell'Italia rinascimentale il
Bronzino ritrae una piccola de' Medici ingioiellata e seduta
compuntamente su un piccolo trono, mentre il lombardo
Moroni non è da meno in un celebre ritrattino di una bimba
treenne abbigliata come una gran dama ingioiellata (che comunque porta al polso il braccialettino di corallo, dono della
nascita, come auspicio di felicità e di lunga vita). Perché una
delle ragioni per le quali l'infanzia è per lunghi secoli quasi
assente dall'arte risiede nella terribile realtà di una spaventosa
mortalità infantile, così che non è raro imbattersi invece in
tristi ritratti di fanciulli morti, richiesti ai pittori d'allora dai
genitori afflitti per perpetuare il ricordo di un piccolo essere che altrimenti sarebbe svanito nella sequenza di tanti lutti
consimili che le famiglie, ricche o povere che fossero, dovevano a
ffrontare. Paradossalmente si può dire che questi ritratti
di piccoli defunti siano gli unici veri depositari di realtà, assai
più perturbanti delle sdolcinate rappresentazioni di piccoli
musicanti di strada, così apprezzate ad esempio in Francia, dai
collezionisti di pittori come Antoine Le Nain. Né documento
sociologico, né testimonianza di umana partecipazione, i quadri di genere, in Francia come nell'Olanda del Seicento, fanno trapelare comunque l'esistenza di una realtà assolutamente
diffusa in tutta Europa, quella dell'infanzia abbandonata che
cresce in strada esposta a qualsiasi malversazione; fra le poche eccezioni l'Olanda, nella quale il celebre pittore di genere
Jan Van Steen (morto nel 1679) racconta l'esistenza di scuole
di paese – destinate a una sommaria alfabetizzazione dell'infanzia – nelle quali regnano tuttavia disordine, schiamazzi ed
eccessi di ogni tipo.
In Europa, per tutto il Settecento, la rappresentazione
dell'infanzia rimane principalmente legata al ritratto, comunque riservato ancora alle famiglie dell'aristocrazia e dell'alta
borghesia. Ma se nei Saloni di Versailles accade d'imbattersi nel ritratto della duchessa d'Orleans (di Pierre Mignard,
1681-1682) che fa le bolle di sapone tenendo in mano una
graziosa conchiglia, occorre ricordare che questo gioco non è
che il simbolo della caducità dell'infanzia esposta alla morte
con la stessa fragilità di una bolla di sapone (lo riprenderà
nel Novecento Cagnaccio di San Pietro). Tutti gli studiosi del
tema sono concordi nel ritenere che il celebre ritratto di Chardin
Bambino con la trottola, 1738 (Paris Museo del Louvre)
sia dal punto di vista sociologico un vero snodo: il bambino
borghese – figlio di un famoso gioielliere – in abiti di velluto e
parrucca incipriata, osserva con elegante distacco una trottolina che ruota sullo scrittoio sul quale giacciono, abbandonati
ma solo per il tempo concesso dal precettore, libri e penna d'oca.
JEAN BAPTISTE SIMÉON CHARDIN - L'Enfant au toton (portrait d'Auguste Gabriel Godefroy), 1736 ca.
Questa è forse una delle prime rappresentazioni nelle quali il giocattolo, o meglio il giocare nell'infanzia, raggiunge il pieno diritto alla rappresentazione nell'arte. Quando si vede giocare qualcuno, nell'arte d'Occidente, a partire dalle rappresentazioni vascolari greche, questi è quasi sempre un adulto e i giochi sono quelli che dall'antichità più remota sono arrivati fino a noi (i dadi, òstraka , ad esempio, ma anche la trottola, già presente nel V secolo a.C.). Nella celebre tavola di Pieter Bruegel il Vecchio conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna, Giochi di bimbi (1560) sono stati individuate ben 82 distinte attività ludiche, ma la maggior parte è espressione di versatilità motoria, abilità e destrezza; i giocattoli sono pochi (spiccano i grandi cerchi in primo piano, o gli altissimi trampoli, ormai nella nostra epoca riservati agli acrobati). Ma allora da dove deriva quanto sappiamo sui giocattoli, e quanto gli specialisti del tema ci raccontano, se le rappresentazioni sono in fondo abbastanza sporadiche fino all'età moderna? Di bambini e di giochi ci parlano in antico i corredi funebri; sono le piccole tombe a racchiudere pietosamente i frammenti delle antiche bambole e dei piccoli corredi di gioco, a raccontarci qualcosa di uno stato della vita dell'uomo, l'infanzia, del quale altrimenti resterebbero ben poche tracce nella cultura materiale. Il bambino, nella letteratura come nella poesia, è nella sua natura infantile messo abbastanza in ombra dalla cultura greco-romana (dalla quale proviene la nostra); esso è il cucciolo dell'uomo e come tale dev'essere precocemente avviato ai costumi dell'età adulta; quando sopravvive, deve sbrigarsi a diventare grande per inserirsi appieno nella società. Questa sorte non cambia nemmeno nel mutare delle classi sociali, anzi, se in quelle più umili probabilmente, come in qualche modo ci ricorda la pittura fiamminga, c'era più tolleranza per il gioco infantile, in quelle più agiate il ritmo dell'esistenza dei piccoli era scandito da obblighi e orari simili a quelli dell'adulto. Nel XVI secolo tuttavia cominciano ad apparire in ambito francese e nordeuropeo alcuni repertori a stampa di giochi e giocattoli, finalizzati soprattutto all'educazione del gentiluomo che passa anche attraverso l'apprendimento delle regole dei giochi (che vengono appunto fissate come tali, cioè come regole, nello stesso periodo).
FAUSTO PIRANDELLO - I sassi, 1936-1939
Casa di bambole, Casa a due della zona di Bergslagen (Svezia), 1870-1890
Secondo quanto ci ricorda Gianfranco Staccioli, del giocattolo come
strumento – e comunque sempre assai meno del gioco inteso come attività più o meno organizzata o regolata – s'interessano in modo decisamente tangenziale i grandi
pensatori del passato, i pedagogisti, tutti i soloni interessati
ad avviare nel migliore dei modi – e possibilmente nel più
veloce – il transito del bambino verso l'età adulta. I collegi
religiosi e in particolare dei gesuiti, sono comunque fra le
prime istituzioni educative a riconoscere uno statuto ‘speciale' all'infanzia,
finalmente distinta da un'amorfa condizione di passaggio del cucciolo d'uomo da attraversare nel più
breve tempo possibile. Si riconosce al bambino il diritto di
giocare in alcune pause previste fra le attività didattiche e
questo per rigenerare le sue energie e predisporle nuovamente all'apprendimento; ma bisognerà attendere gli straordinari
Pensieri sull'educazione dei fanciulli
del filosofo inglese John Locke (1693) per sentir parlare dei giocattoli in modi che
suonano ancora di straordinaria attualità. Locke stabilisce
innanzitutto un'equiparazione fra tutte le attività alle quali
il bambino deve essere applicato nel pieno rispetto delle sue
inclinazioni e dei suoi ritmi di crescita naturale. Le attività
ludiche debbono alternarsi a quelle di studio e di riflessione,
e impiegate a sviluppare nel fanciullo un'attitudine positiva
all'impegno che può trasferirsi dal settore del gioco a quello
dell'apprendimento. Sui giocattoli poi, si esprime con intelligenza stupefacente, quando propone che al bambino si
diano oggetti d'uso comune o da loro stessi costruiti, “come
piccoli sassi, un pezzo di carta, il mazzo di chiavi della madre
e tutto ciò con il quale non si possano fare del male”...
Non dunque giocattoli predisposti dagli adulti, ma oggetti di forme semplici o da loro stessi inventati che sviluppano
nel fanciullo una creatività innata, il piacere del gioco e una
fantasia immaginativa che i giochi prefabbricati non favoriscono (più o meno dalla stessa linea di pensiero nasceranno
duecento anni più tardi i giocattoli di Cambellotti e Grassi e
quelli futuristi di Balla e Depero.)
A distanza di più di duecento anni da Locke, un altro
grande pensatore, Walter Benjamin , ci ha lasciato in una serie
di scritti dal carattere apparentemente asistematico, una sorta
di “trattato sull'infanzia e sul giocattolo” che mette in luce la
profonda difficoltà di circoscrivere in sistema un pensiero totalizzante sull'infanzia alla luce del quale ogni idea, memoria,
riflessione, trovino la loro appropriata collocazione. Il fatto
stesso che sia l'adulto a costruire una teoria del gioco è la
prima origine del tradimento della realtà, alla stregua per cui
sono gli adulti a inventare e proporre ai bambini giocattoli
che sono la loro proiezione dell'idea dell'infanzia e dei suoi
bisogni.
MARIO SIRONI - Soldato e bambina (studio per illustrazione, probabilmente per “Noi e il mondo”), 1914 ca
L'infanzia, ci dice Benjamin, lascia tracce nella vita in forma di figure, e queste figure, mobili e plurisignificanti, vanno interrogate, smontate – come un giocattolo appunto – se vogliamo rintracciarne la forza operativa nella costruzione del nostro essere adulti. “L'infanzia c'è solo se si è adulti: l'infanzia non è mai per il bambino. Il bambino ha il mondo, l'adulto il tempo”. “Il reale adempimento dell'infanzia”, spiega Francesco Cappa negli approfondimenti degli scritti benjaminiani, “si realizza concretamente solo nella sfera dell'infanzia stessa. Tale adempimento, inoltre, non è più costretto a proiettarsi nella figura dell'adulto che il bambino deve diventare. La piena affermazione di ciò che Benjamin intende per infanzia autentica si trova piuttosto nei luoghi che il bambino abita da padrone e non come utensile dell'evento educativo, così come nei materiali che utilizza soprattutto in modo non convenzionale e decontestualizzante”. Credo che queste frasi siano illuminanti anche per cogliere il significato delle figure dell'infanzia presenti nell'itinerario proposto da questa mostra. Ciò che dà verità e forza ai quadri e alle sculture è lo sforzo compiuto dagli autori di andare oltre il mito, lo stereotipo collettivo in cui è confinata quella stagione dell'uomo. Nelle tele, come nelle sculture, il bambino abita lo spazio simbolico da padrone, afferma la concretezza della sua viva presenza, dà sostanza di verità alla figura creata dall'autore. Così, tornando alle riflessioni di Benjamin contenute in quelle conversazioni radiofoniche tenute fra il 1929 e il 1932, egli – fedele al suo metodo – ci parla dell'infanzia assai poco in modo diretto ma molto attraverso le cose e gli ambienti che la definiscono, gli interni della casa borghese tedesca del primo Novecento, la scuola, gli strumenti dell'educazione (abbecedari, libri per bambini), la biblioteca. Ma una centralità forte è assegnata ai giocattoli, ai quali dedica considerazioni molto interessanti e innovative. Più che alla loro funzione simbolica il filosofo pensa alla loro natura culturale. S'interroga sulle origini materiali per scoprire che la loro produzione, probabilmente nel secolo XV, muove dalle attività secondarie delle numerose corporazioni di artigiani: i soldatini di piombo dai calderai, gli animali in legno dai tornitori. Nati all'inizio nell'ambito delle mura domestiche, a poco a poco i giocattoli divengono merce, oggetto di una produzione sempre più specializzata che raggiunge il suo apice nel XVIII secolo. È quella l'epoca in cui cominciano ad apparire le grandi case di bambola, perfettamente arredate con personaggi e oggetti in miniatura, nate per essere esposte trionfalmente nelle sale di ricevimento borghese fra Settecento e Ottocento, non certo destinate ai bambini cui, come agli adulti, era dato solo di guardare. Le case di bambole infatti, fanno finta di essere dei giocattoli, perché apparentemente e nel più fulgido dei modi offrono – pedagogicamente – al bambino la possibilità di mettere in scena tutti gli atti e le situazioni della vita quotidiana. In realtà sono oggetti di pura contemplazione perché non solo al bambino, ma neppure all'adulto è permesso di alterare il meraviglioso ordine che regna nelle stanzine dove ogni suppellettile e ogni personaggio trovano la loro più appropriata collocazione. Queste case – come quei giochi con quinte in cartone concepiti come cannocchiali prospettici aperti su piazze, giardini d'epoca e regge principesche – sono dei diorami, cioè delle perfette e perfettamente illusorie ricostruzioni in miniatura di quella che si considerava il modello perfetto della casa borghese. Nulla può essere spostato, pena non solo la perdita di equilibrio visivo della totalità su questo doppio del mondo, ma soprattutto pena l'alterazione del suo significato simbolico. La casa di bambola, per dirla con Benjamin, non riproduce ma semplicemente è, la casa perfetta, dove regnano grazia, armonia, ordine, decoro; messa in scena immodificabile dell'immutabile modello della famiglia borghese. La riproduzione a scala ridotta delle presenze nel mondo, dalle bambole ai minuscoli animali, regna nei giocattoli raccolti nella madia di famiglia, per lungo tempo fuori dalla stanza e dalla portata diretta del bambino, e i suoi tesori vengono centellinati dalla disponibilità o dalla severità di madri o istitutrici; non perché, come si crede, la piccola misura è la più adatta alla manipolazione delle mani infantili, quanto perché, come ancora riflette Benjamin “ l'adulto, accerchiato senza scampo, da una realtà minacciosa, si sottrae attraverso la sua immagine rimpicciolita”. Nel 1957 esce in Germania Oase des Glücks. Gedanken zu einer Ontologie des Spiels, di Eugen Fink, fenomenologo e pedagogista tedesco, che è diventato un piccolo classico sull'argomento; l'autore, prendendo le mosse dall'interpretazione nietzschiana del mondo come gioco prova a indagare la complessità del fenomeno, affrontandone tutte le ambivalenze, enigmaticità e paradossalità. La premessa è che, se il gioco non si lascia concettualizzare, l'unica possibilità di costruire una filosofia del gioco è quella di partire dalla fine, analizzandone cioè pratiche e comportamenti (P.A.Rovatti).
RICCARDO FRANCALANCIA - La stanza dei giochi, 1928
Il paradosso primo è che il gioco non si svela nella sua natura complessa, ricca di chiaroscuri, ambigua e ambivalente, ma appare a ognuno di noi come un momento della propria esperienza di vita, infantile o adulta sul cui senso non mette conto interrogarsi. Credo che si possa concordare con Fink, asserendo che nessuno di noi in realtà, nella sua vita, si è posto seriamente il problema di che cosa sia il gioco, né quale senso rivestano i giocattoli. Semplicemente nella sua vita, dall'infanzia fino all'età adulta ma anche successivamente, l'essere umano fa esperienza del gioco dandone per scontati aspetti diversi, a dir poco, parziali. La più condivisa delle interpretazioni del gioco è quella che vi riconosce la sua natura di antitesi alle attività serie, al lavoro o allo studio, quindi il suo essere una pausa di rilassamento rispetto all'impegno e alle fatiche della vita adulta. Eppure basta riflettere, ad esempio, sul fatto che molto più di quanto non si pensi il gioco richiede notevole impegno intellettuale (come giocare al bridge o al poker) o fisico (giocare a tennis), per comprendere come questa fondamentale attività non può essere solo confinata nel concetto di libertà dai condizionamenti del lavoro, nell'adulto, o dalle pressanti richieste dell'adulto per il bambino. Fink è abbastanza categorico nell'affermare che la natura del gioco è così molteplice e ambigua da non poter essere ridotta alla semplice antinomia gioco/lavoro; serietà/giocosità. “Il carattere del gioco è l'azione spontanea, il fare attivo, l'impulso vitale; il gioco è per così dire l'esistenza che si muove da sé ”. Si comprende appieno allora come, nel corso del XX secolo, l'essenza del gioco – da attività sostanzialmente marginale e riprovevole dell'essere umano – conosca il pieno riconoscimento della sua profondità d'essere, della sua natura perdurante e pervasiva tale da coincidere con le stesse premesse della natura umana, così che si possa dire dell'uomo che è “essenzialmente un mortale, un lavoratore, un combattente, un amante e un giocatore”. La natura ambigua, sconcertante e profonda del gioco viene travisata se confiniamo il gioco alla sola vita infantile. Il gioco sfugge a quella regola generale dell'umano che fissa uno scopo superiore all'azione; il gioco ha in sé stesso il suo fine, come del resto l'arte. O meglio, l'azione del gioco ha degli scopi interni a sé che non rimandano ad altro. Il gioco, come ha scritto R.M.Rilke, postula una condizione spazio temporale che non appartiene del tutto a quella ordinaria esperibile con tutti i sensi: “O ore dell'infanzia, quando/dietro alle figure c'era più del semplice /passato, e a noi dinanzi non il futuro./...Eppure nel nostro solitario andare/ quel che dura ci recava diletto e à/stavamo, tra giocattolo e mondo, nello spazio/intermedio che dal principio fondato fu per un evento puro". Ecco di nuovo tornare quel concetto di spazio intermedio, di tempo senza temporalità, che è il mondo del gioco e del giocattolo, quello che forse gli artisti hanno inteso figurare nelle loro opere, nelle tele e nelle sculture, quando, finalmente, si sono sentiti liberati da ogni intento pedagogico e hanno provato a risalire alle sorgenti profonde del sé nelle quali il gioco è una pulsione originaria, contraddittoria e inconoscibile. E il giocattolo, qual è il suo statuto? Tutti noi pensiamo di averne un'idea, tutti ne abbiamo posseduti in maggiore o minor misura, per tutti – dopo il seno materno – sono stati i nostri primi oggetti del desiderio; eppure si può dire che siano costantemente oggetto di rimozione, privi di vita e di senso non appena la mano che li ha utilizzati li lascia cadere in un angolo, come nello splendido quadro di Francalancia che ritrae una camera vuota, dalla quale l'infanzia è assente o si è appena spenta, lasciando sul proscenio solitario in vista un pinocchietto inerte e un triciclo. Fuori dall'universo straniante e totalizzante delle case di bambola, i giocattoli ci appaiono estranei eppure così terribilmente familiari; perché sono familiari a quella parte di noi che ancora ha ricordi d'infanzia, accendono in noi lampi di memoria sulle epoche della nostra fanciullezza, ma questi lampi non fanno che riconfermare in noi adulti la terribile, incolmabile distanza che separa il tempo presente da quello della nostra fanciullezza. I giocattoli, come aveva perfettamente compreso Alberto Savinio, forse lo scrittore/pittore del Ventesimo secolo che meglio di ogni altro ci ha rivelato la loro misteriosa, ‘estraniata' e metamorfica natura, solo apparentemente sono riconducibili alla dimensione, così inafferrabile e plurisignificante del giocare. La consistenza oggettuale dei giocattoli e le attività ludiche solo apparentemente rinviano a due facce della stessa medaglia; in realtà – come poeti, scrittori e filosofi ci hanno spiegato – sono due universi separati che in questa mostra abbiamo provato a far rispecchiare, gli uni (i giocattoli) nelle altre (le opere d'arte). L'indagine condotta dai curatori della mostra La trottola e il robot, ha messo in evidenza quanto nell'arte italiana degli ultimi centocinquant'anni non tanto all'infanzia – riconosciuta a pieno titolo soggetto di rappresentazione artistica a partire dalla metà dell'Ottocento – quanto al giocare (momento nel quale, secondo i filosofi, si palesa appieno l'esistenza che si muove da sé) – gli artisti abbiano riservato un'attenzione marginale, incostante ed episodica, come se quella attività, in realtà centrale nella vita di ogni essere umano, protratta in varie forme per tutta la vita, sia qualche cosa di fuggevole e transitorio e di così scarso valore da non meritare di essere fissato sulla tela.
ALBERTO SAVINIO - Senza titolo, 1930
Eppure, paradossalmente (ma i paradossi sono la centralità del tema se parliamo del gioco, come ci ha spiegato Fink), l'attività umana che presenta le maggiori affinità con quella del giocare è proprio l'attività artistica. La rappresentazione artistica si allontana dalla sua concretezza oggettuale (fatta di una tela fissata con i chiodi a uno chassis di legno), tanto quanto la bambola di pezza è lontana e non riconducibile alla natura di una bambina in carne e ossa; come nel “magico riflettersi del mondo nel gioco”, nell'arte ogni cosa diventa simbolo, ricerca e rappresentazione del senso del mondo e della vita. “Giocare è una creazione, con caratteri di finitezza, nella magica dimensione dell'apparenza” (Fink), come lo è l'arte. Ma già chiaramente troviamo in Nietzsche espresso il concetto che “un nascere e un perire, un costruire e un distruggere, che siano privi di ogni imputabilità morale e si svolgano in un'innocenza eternamente uguale, si ritrovano in questo mondo solo attraverso il gioco dell'artista e del fanciullo”. “Nel magico riflettersi del mondo del gioco la singola cosa, presa casualmente (per esempio il giocattolo),” riprende ancora Fink, “diventa un simbolo. Esso rappresenta. Il gioco dell'uomo è (anche se da tempo non ne teniamo più conto) l'azione simbolica di una rappresentazione del senso del mondo e della vita”. Il che, come si vede, può dirsi a pieno titolo anche dell'arte. Solo l'arte ha la capacità empatica e la forza visionaria di restituire all'oggetto (al giocattolo) che popolò la nostra infanzia quell'aura magica che lo rivestiva ai nostri occhi e senza le quali il cavalluccio a dondolo resta cartapesta sagomata, abbandonata nell'angolo della cantina e non la trionfante cavalcatura della bambina dipinta da Bruno Saetti. Nondimeno, la varietà fenomenologica offerta dai tanti punti di vista degli artisti sull'infanzia in gioco impone ai curatori – pena lo smarrimento – di privilegiare alcuni punti di vista, nodi tematici dei quali provare a verificare la coerenza concettuale nella complessa e articolata mappa teorica costruita sul tema del gioco da filosofi, sociologi e pedagogisti. Il racconto della mostra si articola così in sei sezioni, all'interno delle quali proviamo a ricomprendere i differenti punti di vista degli artisti sul tema, il loro modo di “rappresentare attraverso il gioco il senso del mondo e della vita”, come ha scritto Fink. Le sezioni tematiche (la casa, il gioco all'esterno, l'educazione, giochi senza età, teatro maschere e circo, gli automi) sono state individuate intuitivamente accogliendo le indicazioni iconografiche offerte dagli artisti, ma – per alcune di loro – si è poi trovato un sorprendente riscontro nella classificazione dei giochi elaborata dal sociologo francese Roger Caillois nel saggio I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, ormai divenuto un classico. Le quattro grandi categorie, all'interno delle quali, secondo l'autore, tutte le possibili manifestazioni legate al gioco si possono ricondurre, portano appellativi tratti da altre lingue: sono agon, alea, mimicry, ilinx. Agon fa riferimento a tutte quelle attività che si basano sulla competizione e dove la principale molla è quella di veder riconosciuta la propria superiorità in un determinato campo. Implica forza, abilità e destrezza se riguarda i cimenti sportivi, ma anche memoria, autocontrollo nei giochi degli adulti, come il biliardo, la dama, gli scacchi e altri. Tutte le competizioni atletiche, ma anche la caccia, rientrano nell' agon. La natura di questi giochi, dunque è sia fisica che cerebrale. I giochi degli adulti, che abbiamo ricordato, rientrano per lo più nella seconda grande categoria, quella basata sull'alea, il caso, cui rimanda la parola latina che indica il gioco dei dadi. Qui l'avversario da battere non è il nostro competitore ma il destino, spiega Caillois, e tutto il gioco finisce col dipendere da una decisione che non è presa da alcun giocatore e sulla quale nessuno può far presa. Dunque in massima parte i giochi degli adulti si possono riferire alla competizione dell'agon o all'arbitrio dell'alea e a questi due poli fanno riferimento anche gli artisti quando riconfermano la natura profondamente simbolica delle carte da gioco e dei tarocchi; sono questi certamente i più rappresentati – si veda la bellissima Natura morta cubista di Severini – per la capacità di evocare l'importanza della logica e la padronanza dell'uomo sul proprio destino, o al contrario il suo smarrirsi nel capriccioso gioco della sorte. Un altro punto centrale della teoria di Caillois è quello che vede nei giochi, quasi alla fonte del loro stesso originarsi, la mimicry, parola inglese che vuol dire imitazione, ma anche mimetismo. Ogni gioco presuppone l'accettazione temporanea di una situazione convenzionale, illusoria e per certi aspetti fittizia, ma la dimensione della mimicry fa riferimento a una intera gamma di attività infantili, fra le più diffuse e persistenti anche nell'età adulta, basate sulla mimica e sul travestimento. Il bambino si traveste da condottiero e vi si atteggia, gioca a farsi passare per un altro, riveste una identità diversa dalla propria. Ma è proprio vero che, come sostiene il sociologo, tutto l'universo complesso dei giochi e dei giocattoli che fa capo alla bambola possa essere ricompreso nel gusto dell'imitazione della figura materna? Non sempre mimicry vuol dire invenzione continua, come egli dice: talvolta – crediamo noi – è ripetizione acritica, stereotipata dei gesti che, dall'osservatorio infantile, marcano il ruolo sociale della donna borghese moglie e madre. Certo, travestimento è però anche maschera, teatro; tutto quel mondo – alternativo a quello reale – che da sempre affascina gli artisti: un mondo dominato dall'evasione delle regole e delle convenzioni del quotidiano, un universo di metafore antiche e d'istinti primordiali ai quali è dato di vestire i panni di Alcesti o di Pulcinella. Il girotondo, la giostra, l'altalena e poi, nella dimensione più estesa e per adulti, l'intero mondo del circo e del Luna park (ma anche i più moderni giochi ‘estremi' come il bungee jumping, lanciarsi con l'elastico dall'alto di un viadotto) sperimentano quello che Caillois chiama ilinx, vertigine, forse il retaggio di riti primordiali delle società umane (in parte giunti fino a noi nella danza ipnotica dei dervisci). Nel chiuso mondo del circo, dominato da leggi proprie, “la sanzione fatale, quella della morte, è necessariamente presente, per il domatore, come per l'acrobata...entra nelle regole di un gioco che prevede un rischio totale”. Sin qui giungono le corrispondenze possibili fra le grandi categorie del gioco elaborate da Caillois e le immagini create dagli artisti; queste provano, vicendevolmente, a gettare luce e dare senso le une alle altre. Colpisce tuttavia che, nella sua categorizzazione, manchi completamente la nozione di ambiente; il dove si compie l'azione ludica può essere importante quanto e talvolta più di come la si compie e a quali motivazioni essa risponda. Ora, invece e per forza di cosa, l'artista è attento all'ambiente: la descrizione della scena illumina e dà senso alla situazione che vede coinvolto il bambino.
GINO SEVERINI - Arlequin à la mandoline, 1919
Guardando la sequenza delle opere esposte, nella sezione dedicata alla Casa e ai Giochi in esterno possiamo fare alcune interessanti annotazioni sui rapporti fra l'arte e l'infanzia in gioco. Tutta la ricchezza descrittiva delle opere dell'Ottocento, che raccontano l'ambiente di vita della borghesia agiata, nel quale il bimbo è tuttavia un raro protagonista, si sostituisce nei primi decenni del Novecento una figurazione più concentrata sulla figura del bambino, spesso un membro della famiglia, che raramente è impegnato davvero nel gioco. Più spesso appare serio e compunto e il giocattolo che tiene in mano quasi gli è estraneo, come fosse il relitto di una mitologia dell'infanzia come tempo della felice incoscienza e della spensieratezza di cui il pittore ci dice quanto sia breve o forse del tutto irreale.
PAUL VEGENER, CARL BOESE - Il Golem, come venne al mondo, 1920
I giocattoli allora trovano una diversa chiave di rappresentazione nelle nature morte: nell'impaginazione araldica di Cagli
o nel breve proscenio di Vagnetti, nel silenzioso palesarsi fra
gli oggetti polverosi di Pirandello, riacquistano tutto il loro
valore simbolico.
L'immersione nello spazio esterno diventa essa stessa per
il bambino occasione di gioco. La presenza di un bosco favorisce i picnic all'aperto ai quali partecipano i giocattoli-
talismano dai quali il bambino non si vuole separare (quasi a
protezione dal mistero che si apre a ogni uscita dalla casa), o il
gioco collettivo della mosca cieca (Müller), mentre contro le
quinte delle case si ambienta, ogni giorno sempre uguale – di
generazione in generazione – il salto della corda (Magri, Balduini). Ma, in quella Italia dei primi anni del Novecento, il
territorio delle vere scoperte per il bambino è il mare: Fanelli
immerge la spiaggia dorata in una luce sfavillante che assorbe
le figure, mentre Sartorio, con un obbiettivo più ravvicinato,
coglie nella bimba raccolta a terra quell'atteggiamento misto
di paura e curiosità che accompagna la scoperta del mondo.
Infine Carlo Erba, nel suo monumentale Le trottole del borgo che vanno
trasferisce in una accesa, dilatata, sintetica visione quella paidìa
di cui parla Caillois come origine di tutti i giochi: esplosione di energia allo stato puro, incontenibile manifestazione dello stato dell'infanzia come puro essere.
È piuttosto sorprendente riscontrare come nel corso del Novecento gli artisti si siano soffermati più volentieri a rappresentare l'infanzia che studia piuttosto che l'infanzia intenta a giocare; questo perché, nella concezione comune, l'esperienza del gioco – se non più moralmente censurabile – era considerata poco significativa nella vita del bambino. La vera
formazione del fanciullo non si realizza nel tempo della spensieratezza e della fantasia ma in quello dedicato allo studio.
Abbiamo trovato molte opere, nel corso del secolo che va dagli anni Sessanta dell'Ottocento al secondo dopoguerra, che
rappresentano bambini seduti al tavolo e intenti nella lettura.
Se artisti come Balla, Carlo Levi e Borra mettono in luce il
fatto che la formazione armonica avviene nell'ambito degli affetti familiari, della trasmissione del sapere fra madri e
figli, altri invece sottolineano la solitudine del fanciullo di fronte allo sforzo dell'apprendimento. I
figli della borghesia ricca studiano per costruire il loro ruolo nella classe dominante.
Il tema dell'educazione per gli artisti assume anche valenze
sociologiche: Cambellotti dedica molte energie, nell'ambito
dei circoli socialisti della Roma primo Novecento, a illustrare
sillabari e libri per l'infanzia con una grafica semplice e immediata di sorprendente modernità, mentre il toscano Viani si
sofferma a rappresentare scene d'interni dalle scuole popolari,
con povere suppellettili, freddo e mani coperte dai geloni.
Trombette, tamburi, pianole, piatti e sonagli sono giocattoli certo (ricordiamo che
jouer,to play, spielen, sono termini con una doppia valenza estranea all'italiano suonare) ma nei
quadri in mostra il suonare da semplice gioco istintivo (ancora
paidìa), diventa un'attività più strutturata che alcuni pittori
ritraggono immergendo i giovani musicisti in un'atmosfera
sospesa, auratica, che interviene ad ammorbidire le solidità
novecentesche. All'altro estremo di questa rappresentazione
dell'educazione borghese, stanno i bambini delle classi sociali
periferiche, quelli incontrati nel confino lucano da Carlo Levi
o ripresi da Filippelli sullo sfondo semi-rurale di periferie urbane, con le nuove fabbriche fumanti sullo sfondo come unico destino possibile. Bambini senza giochi, senza scarpe, che
attraversano inconsapevoli un'infanzia senza gioia.
L'ultima sezione della mostra apre agli automi
, e allude alla dimensione della robotica contemporanea e al contributo in idee e oggetti prestato dall'Istituto Sant'Anna di Pisa,
leader nella ricerca del settore della robotica. L'automa, la cui
origine è ancora davvero incerta, non è una diretta filiazione
dai giocattoli; alla sua genesi non sono estranei né i primi
orologi né i congegni automatici introdotti in ambito teatrale
per lo stupore dei bambini e degli adulti, ma poi sperimentati in grande scala – a partire dal secolo XVII nelle stupefacenti
creature meccaniche dai sofisticati congegni a orologeria che
tanto hanno colpito i cineasti (da Fritz Lang in Metropolis,
al Fellini di Casanova, al più recente Scorsese di Hugo Cabret). In mostra abbiamo piccoli giocattoli mossi da ingenui
congegni a carica, ma soprattutto opere di pittura e scultura
nelle quali si rivela, nel corso del Novecento, il fascino che
l'idea dell'automa, il doppio meccanico dell'uomo, ha esercitato sulla fantasia degli artisti. L'automa nella pittura italiana, richiamato esplicitamente nelle forme
robotiche dell'arte meccanica immaginate dai futuristi Paladini e Pannaggi (di
quest'ultimo due splendidi bozzetti per pièce teatrali), trova
in realtà un'espressione più complessa e plurisignificante,
come equivalente dell'uomo contemporaneo dal quale emozione e passioni sono assenti, nei manichini di de Chirico e
Sironi; nelle frammentate ed evocative nature morte dell'arte
“Novecento”, nelle quali lo sparso disordine delle membra di
gesso dei modelli di studio (Casorati) evoca le membra disiecta
dell'uomo travolto dalla forza e dall'impenetrabilità delle
ragioni della Storia. Movimenti elementari, brevi flash coreografici e ironiche apparenze sono propri del “teatro magico” ideato dal futurista Depero e assegnati alle sue marionette
ideate e realizzate dal 1915 al 1924; l'artista si dedicò con
passione alla rinascita di quella originale forma teatrale e alla scenografia e coreografia futuriste: vi regna una inesauribile
fantasia formale espressa dai profili semplificati dei suoi pupazzi dai colori accesi sullo sfondo di scenari onirici e surreali. L'idea è quella di realizzare, per gli adulti piuttosto che
per i bambini, un'opera d'arte totale che si attua attraverso la
piena consonanza fra la geometrizzazione delle forme e delle
azioni coreografiche e l'essenzialità primaria delle passioni che
agiscono nel testo, idee presto trasferite dai suoi burattini di
legno alla sua scultura e ai disegni per la pubblicità. Proiettato
dapprima verso le utopie della modernità industriale, l'automa nelle teorizzazioni del Futurismo ma anche nelle fantasie
della Metafisica e di Novecento, sembra però riscoprire altre
radici, più arcaiche ed esoteriche, come quella figura del Golem, mostro d'argilla creato secondo la leggenda a Praga intorno al 1575, dal rabbino Yehoudah Loew per salvare il popolo ebraico, ma presto divenuto ambivalente incarnazione
delle forze oscure e incontrollabili che l'uomo scatena quando
ha l'ambizione di sostituirsi al Divino Creatore.
DALL'ORDINARIO ALLO STRAORDINARIO:STORIE DI GIOCATTOLI, BAMBINI E ARTISTI
Filippo Bacci Di Capaci
L'esposizione “La trottola e il robot ” nasce dal connubio di opere d'arte e di giocattoli d'epoca e la sua realizzazione è stata possibile grazie alla cortese collaborazione del Comune di Roma. In seguito ai prestiti concessi a Parigi (Musée des Arts Décoratifs, 2014/2015) e a New York (Bard Graduate Center, 2015/2016), Musei Civici di Roma Capitale ci ha accordato la disponibilità di esporre in questa sede una parte di una straordinaria collezione di balocchi in attesa di una permanente e adeguata sistemazione nella capitale per essere fruibile al pubblico. Nei dipinti selezionati per la mostra sono rappresentati svariati e curiosi giocattoli e vagliando la ricchissima collezione romana abbiamo individuato quelli simili, talvolta identici, a quelli rappresentati dagli artisti presenti, accostando in tal modo le opere ai balocchi della stessa epoca. L'esposizione esplora un territorio artistico poco indagato fino ad oggi, cinque generazioni d'infanzia e di giochi da quella ormai lontana dei nostri trisavoli che coincise con l'Unità d'Italia, a quella dei nonni e dei nostri genitori che hanno assistito a due guerre mondiali fino al periodo della crescita economica del dopoguerra. Il viaggio che abbiamo intrapreso nel mondo infantile attraversa circa un secolo – dal 1860 al 1960 – un periodo di grandi cambiamenti storici, tecnologici e sociali, nel quale l'interesse per la vita del bambino, per la sua educazione, per il suo rapportarsi col mondo e con i giochi ha destato attenzione negli artisti, nella letteratura, nei filosofi e medici. Quest'anno viene analizzato un lasso di tempo che si riallaccia a “ Tutti in moto!”, mostra che nel 2016 ha inaugurato Palazzo Pretorio come prestigiosa sede di mostre nazionali. Cent'anni di storia attraverso dipinti e sculture che hanno rappresentato il fenomeno dell'evoluzione dei mezzi di trasporto – dal carretto all'aeroplano -, e della progressiva e sempre più convulsa velocità a cui hanno dovuto adeguarsi le generazioni passate. Anteriormente alla seconda metà dell'Ottocento la rappresentazione dell'infanzia, di bambini e fanciulli che giocano, e soprattutto di giocattoli, non aveva trovato grande spazio e interesse nella produzione degli artisti italiani. L'infanzia era raffigurata nei ritratti di famiglia, o erano effigiati i bimbi di regnanti e di grandi casati. È il secondo Ottocento che scopre l'infanzia nella letteratura e nell'arte, né gli scrittori né i pittori in passato avevano manifestano un sincero genuino e costante interesse per i bambini. È negli anni Ottanta che Carlo Collodi e Edmondo De Amicis portano l'attenzione verso il mondo dei fanciulli, Pinocchio (1881) e Cuore (1886) sono libri dedicati all'infanzia, di forte carattere educativo-pedagogico e ricchi di spunti morali intorno ai miti affettivi. Poi il Novecento avvia l'epoca di Vamba, che apre le sue pagine ai ragazzi con la pubblicazione del Giornalino della Domenica e del Giornalino di Gian Burrasca. Viene così formandosi in Italia un nuovo clima in cui il fanciullo trova libera espressione e che suggerisce alla pedagogia il sospetto dei suoi errori didattici e della sua scarsa comprensione dell'anima infantile. Prima che l'Ottocento sancisse una società del bambino i giocattoli come li intendiamo oggi non esistevano, in quanto il bimbo veniva percepito come un piccolo adulto con l'unico impegno di crescere alla svelta. I balocchi sono sempre esistiti e con essi i bambini si sono sempre divertiti in ogni tempo, ma dall'Ottocento in poi il giocattolo non è più una rara produzione di eccellenza artigianale, atta a soddisfare soltanto i desideri dei bambini dell'alta e opulenta borghesia. È il tempo che vede la nascita e lo sviluppo della produzione del giocattolo su vasta scala, e l'estro e la capacità costruttiva di valenti artigiani e maestri giocattolai vengono impiegati dall'industria nascente per la costruzione di trenini, carrozze, soldatini e navi.
ANTONIETTA RAPHAËL - Giocatrice d'azzardo, 1948 ca.
La Furga è la prima industria italiana di giocattoli nata nel 1872 a Canneto sull'Oglio e oggi sede di un museo del giocattolo. Il gioco caratterizza la vita dell'uomo dalla sua nascita, è una palestra di esercitazione delle regole socialmente codificate e metodo di approccio alla realtà circostante. L'attività ludica è creatività allo stato puro, creazione di regole senza un obiettivo, e se il gioco è uno degli aspetti propri dell'uomo i giocattoli sono gli strumenti che consentono la trasmissione dei ruoli e delle regole sociali. Attraverso il gioco il bambino si prepara alla vita: sperimenta, ripete, smonta e rimonta, e capendo come funzionano gli oggetti conosce il mondo. E se peculiarità dell'arte è osservare l'ordinario in modo straordinario dunque il bambino è il primo e vero artista, e l'artista un bambino mai cresciuto. L'esposizione si articola in un percorso diviso in sei sezioni. Ogni sezione esamina l'infanzia e i bambini in ambiti specifici, accostando ad essi i giocattoli che a quelle attività ed esperienze fanno diretto riferimento. La Casa, Giochi all'esterno, L'educazione, Giochi senza età, Teatro maschere e circo, Automi, provano ad illustrare quel rispecchiamento simbolico fra l'oggetto ludico e il giocare che gli artisti hanno provato ad investigare restituendo delle “Figure dell'infanzia” dai significati complessi e stratificati che si prestano a molte e diverse letture e interpretazioni. La concezione dell'infanzia che emerge dalle opere in mostra è un buon indicatore dei mutamenti sociali e altresì artistici – e persino pedagogici – che racchiudono la sfaccettata tematica; le opere artistiche non si allineano al mito della fanciullezza spensierata (Alberto Savinio scrive già ai primi anni Venti Tragedia dell'Infanzia nella quale dà espressione alle paure e inquietudini, alle angosce per il mistero che, secondo i bambini, circonda il mondo). Anche quando si tratta di classi sociali privilegiate ne emerge uno sguardo assai spesso inquieto e poco spensierato. Ci sono opere che sono attraversate da un alone melanconico che ci rivela quanto i fanciulli raffigurati non abbiano vissuto un periodo privilegiato: a volte è il loro sguardo, oppure il contesto nel quale sono rappresentati o ancor più la sua assenza, che ci svela una quotidianità di mestizia e solitudine. La prima sezione è dedicata alla Casa , gli artisti penetrano lo spazio domestico e intimo dei fanciulli, il luogo dove si svolge la loro vita. Entriamo nelle case ottocentesche attraverso le opere di Gioacchino Toma, Francesco Gioli, Giuseppe Barison e Federico Zandomeneghi; nell'Interno di Lorenzo Viani accediamo in punta di piedi nell'ambulatorio medico dei poveri. Fausto Vagnetti e Corrado Cagli con i colori e il disordine dei loro giocattoli ci chiamano a giocare; nell'esplosione di colorata modernità del pannello di Balla entriamo in un film. Gastone Novelli con la sua essenzialità ci costringe a riflettere, spiegandoci il luogo dove si gioca in modo enigmatico. La seconda sezione intitolata Giochi all'esterno porta gli artisti ad uscire dalla stanza dei giochi, in spazi dove ci sarà ancora il tempo per giocare perché si uscirà all'aperto o si andrà in spiaggia. Ecco le luminose giornate di sole nel mezzo alla natura nelle tele di Matteo Corcos, Giovanni Sottocornola e Carlo Erba, e le prime spiagge nell'impressione veloce di Francesco Fanelli e nella radiosa tela di Giulio Aristide Sartorio. E poi ancora i giochi che si fanno in gruppo, come nelle opere di Alberto Magri, Adolfo Balduini e Alfredo Müller, Cafiero Filippelli ci intenerisce con la sua bambina che alle sue spalle ha un città in fermento. La terza sezione vede gli artisti osservare L'educazione del fanciullo, il tempo dedicato allo studio, alla lettura, alle lezioni di musica, dove capita anche di imparare giocando. Qui troviamo i superbi fanciulli di Antonio Mancini e quelli modellati dalla luce di Elisabeth Chaplin, poi l'intimità nelle ombre che avvolgono la madre e la figlia di Giacomo Balla. Oscar Ghiglia, Llewelyn Lloyd e Renato Tomassi ci offrono l'istantanea di un attimo, nel freddo delle classi Lorenzo Viani è icastico, ma guardando i suoi bimbi ognuno di noi è trascinato indietro al ricordo dei propri anni scolastici. Nella quarta sezione gli artisti ci illustrano i Giochi senza età, ci raccontano come siamo da grandi, come giochiamo e con cosa giochiamo, il gioco e il mondo degli adulti. Così l'azzurro vuoto del fondo nella Caccia alla volpe di Umberto Boccioni ci sospende, la Natura morta cubista di Gino Severini ci ributta a terra, e la volgarità sfacciata della Giocatrice d'azzardo di Antonietta Raphael ci fa vergognare dei nostri vizi. Nel merito all'importante proprietà del gioco – che sia “futurista” o non lo sia – concordo con Balla quando in “Ricostruzione futurista dell'Universo” del 1915 dice: “Il giocattolo futurista sarà utilissimo anche all'adulto, poiché lo manterrà giovane, festante, disinvolto, pronto a tutto, instancabile, istintivo e intuitivo.” Nella quinta sezione viene raffigurato il mondo del Teatro, delle maschere e del circo, e se giocare è anche rappresentare, ci si mette in scena. Franco Gentilini intitola il suo quadro La camera incantata, titolo che racchiude tutte le suggestioni di quel mondo, mentre Moses Levy rappresenta il Luna Park dall'alto per non lasciarci sfuggire niente. Il Giovane circense di Vittorio Rignano sembra preannunciare le note della musica felliniana di Nino Rota. Ma è con Fortunato Depero che entriamo nel futuro, versatile e visionario è un'artista moderno e un designer, la sua ricerca espressiva si distingue per la passione verso i materiali più diversi e moderni, e i suoi giocattoli, i bozzetti e i progetti, ci fanno sentire il divertimento che lo doveva accompagnare nella progettazione. “Per mezzo di complessi plastici noi costruiremo dei giocattoli che abitueranno il bambino: a ridere apertissimamente; all'elasticità massima; allo slancio immaginativo; a tendere infinitamente e ad agilizzare la sensibilità; al coraggio fisico.” (tratto da “Ricostruzione futurista dell'Universo”, 1915). La sesta sezione conclude il percorso con gli Automi, dove gli artisti per mano alla scienza ci trascinano di corsa fino ad oggi. Mentre il sabba carnivoro della Danza dei Chiofissi di Fortunato Depero ci strega, ancora prodromi di cubismo con i due manichini di Mario Sironi, e con queste premesse arriviamo agli automi di Ivo Pannaggi che ci catapultano a ieri, ai giochi dei nostri figli che abbiamo appena messo via. Nel 1939 lo storico Johan Huizinga nel saggio Homo ludens ci dice senza indugi che la cultura proviene dal gioco, in quanto il gioco comprende in sé tutte le manifestazioni che caratterizzano la cultura, come la fantasia, l'invenzione, la disciplina, l'immaginazione, la ricerca, l'impegno. Gli studi sulle attività ludiche raggruppano i giocattoli in tre tipologie principali: i giocattoli improvvisati, che sono tutti quelli oggetti casuali che i bambini trovano e adoperano per giocare; i giocattoli che vengono costruiti dai genitori o dai bambini stessi; il giocattolo industriale che si vende nei negozi.
Automobile giocattolo, Autovettura con impianto gasogeno, 1940 ca.
In una situazione di noia se un bambino non ha a disposizione niente con cui giocare pensa, e poi inventa. Ecco che per togliersi da quel momento d'impasse diventa fantastico: utilizzando gli oggetti che trova casualmente intorno a sé si ingegna, e li reinventa per dare vita a ciò che vuole. È la fantasia ad accendersi, diversamente da quando gli viene comprato – a volte imposto – un giocattolo. Ed è proprio la componente fantastica della creazione autonoma del bambino che oggi sembra essere più rara; i nostri nipoti giocano con strumenti industriali stabiliti dal marketing e dalle mode. Oggi l'oggetto ludico non è più ingenuo, e quei giochi che abbiamo fatto da sempre come quelli di gruppo, quelli dove si fa squadra e dove si definiscono i ruoli, mi viene da dire che fra pochi anni non sapremo più che cosa sono, forse saranno destinati a sparire. Senz'altro è nostra quella smania che ci porta ad affollare le giornate dei nostri figli con continue attività. Ed è vero anche che il giocattolo è sempre servito a noi adulti per prenderci dei momenti di libertà, ma la dipendenza dai soldatini o dalla palla credo sia meno pericolosa di quella da un video game. Del resto non si può far finta che l'evoluzione non esista, è l'educazione all'evoluzione che noi dobbiamo imparare per primi, per poi essere in grado di trasmetterla ai nostri ragazzi. La tecnologia è una cosa meravigliosa e in questo secolo si sta sviluppando vorticosamente, ma va saputa gestire; il rischio che oggi corriamo è che i nostri figli non siano preparati a rielaborarla e governarla. Gli strumenti che hanno a disposizione per giocare li impacchettano tutti omologati e tutti meno creativi, e in maniera devastante li isolano e gli creano dipendenza. Noi li osserviamo, molto spesso impotenti, chiusi in casa mentre scambiano il mondo virtuale con la vita reale. Giovani non fidatevi delle notizie che avete al momento. Dovete approfondire per diventare adulti coscienti. Purtroppo siete insidiati da tutte le parti con la tecnologia. Dovete difendere la forza meravigliosa del vostro pensiero. Rosetta Loy.
IL CALEIDOSCOPICO MONDO DEL GIOCATTOLO
Gianfranco Staccioli
MILLE E MILLE IMMAGINI
Agli inizi dell'Ottocento a Edimburgo, fu presentato un
curioso giocattolo a forma di tubo. Il gioco consisteva nel guardare dentro il cilindro, dove erano stati sistemati piccoli oggetti
trasparenti e colorati, ed apparivano delle forme decorative, simili ad un rosone di una chiesa. Con una leggera rotazione del
tubo, le forme si scomponevano e si ricomponevano, dando luogo ad una infinita varietà di immagini. David Brewster, lo
scienziato che lo aveva inventato, lo chiamava caleidoscopio,
utilizzando la fusione di due parole greche: (kalos/bello, eidos/figura). Utilizzeremo anche noi l'immagine del caleidoscopio
come metafora, per parlare di giocattoli: nella storia dei giochi infantili si possono scorgere immagini diverse a seconda dei
luoghi, dei tempi, delle funzioni, della tipologia, dei materiali, delle età, del sesso... A seconda di come si compongono gli
elementi ludici si possono ottenere figurazioni diverse, come
quando in un caleidoscopio si ruota il visore. E i pezzi che compongono metaforicamente un giocattolo sono tanti.
Una prima serie di figure che potremmo vedere nel nostro
immaginario caleidoscopio dei giocattoli, è quella relativa alle
tipologie di gioco che il termine giocattolo ci offre. Fondamentalmente un giocattolo è quell'oggetto costruito da adulti per
bambini, principalmente realizzato a livello industriale e venduto nei negozi. Un giocattolo può essere realizzato con materiali diversi, legati alla cultura e alle potenzialità tecnologiche di
questo o di quel tempo. C'è però un secondo uso del termine
giocattolo, ed è quello che si riferisce agli oggetti non industriali, costruiti artigianalmente da un genitore per il proprio bambino: un fischietto, una bambola, un cavallino di legno, una trottola... Dentro questa seconda tipologia vanno inseriti anche i giocattoli che i bambini si costruiscono da soli: l'arco e
le frecce, il fucile con elastico... Infine, c'è una terza categoria:
quella degli oggetti che vengono adoperati dai bambini per i
loro giochi (un bastone, una cassetta da frutta...), oggetti che
diventano dei giocattoli improvvisati. Come si vede, la varietà
delle tipologie che si racchiudono dentro il termine giocattolo è abbastanza ampia e rende praticamente in
finiti gli oggetti ludici che chiamiamo di solito giocattolo. Si può dire che un
giocattolo sia qualunque cosa – manufatto industriale o meno – attraverso il quale un bambino, manipolando, immaginando,
raccontandosi, inventa i propri giochi.
Una seconda serie di immagini da gustare nel nostro ipotetico caleidoscopio si riferisce al livello economico di chi usa
il giocattolo (compresa la famiglia e i parenti del giocatore), un
legame che c'è sempre stato nei giocattoli che sono stati pensati
ed erano destinati ai bambini, Conosciamo la storia degli oggetti da gioco che venivano regalati ai piccoli dei principi o dei re.
L'infanzia di Luigi XII (seconda metà del Quattrocento) è stata
documentata anche attraverso i giocattoli che venivano costruiti per lui, oggetti preziosi come gli utensili d'argento dorato
per la sua casa di bambola. Luigi XIV era felice nel mostrare ai
cortigiani il suo delizioso cannone d'oro trainato da una pulce
o la sua cassetta con gli strumenti chirurgici (Rabecq-Maillard, 1962). Questi giocattoli ‘da re', raffinatissimi, sono stati presi
in considerazione anche da Philipe Ariès che ha spiegato, nel
suo classico testo (Ariès, 1976), come i giochi e i giocattoli riservati alle classi più alte della società, siano lentamente passati
(meglio, conquistati) alle nuove élite del tempo, ai nuovi ricchi,
alla classe media. Possedere e regalare un giocattolo al proprio
bambino, un oggetto da gioco simile a quello di un principe
o di un nobile, era un messaggio sociale preciso. Come se chi lo possiede dicesse implicitamente: anche la nostra famiglia è
come ... Le classi meno agiate, i popolani, i contadini, gli artigiani, i bottegai, utilizzavano giocattoli meno elaborati, più
tradizionali, legati a materiali di uso comune. Di questa tipologia di giocattoli abbiamo minori tracce, ma essi rappresentano
– quantitativamente – la dimensione più vasta.
Una terza possibilità di costruzione dei nostri rosoni caleidoscopici è legata alle età dei giocatori. I giocattoli per i bambini piccolissimi ci offrono un affascinante percorso storico legato ai costumi e alle simbologie religiose. I sonagli, le
bambole articolate, i carrettini (come quelli rappresentati nei
mosaici della Villa del Casale a Piazza Armerina) venivano regalati ai piccoli degli antichi romani. I giocattoli che venivano
offerti ai più grandi erano in funzione di un preciso modello
che privilegiava l'abilità fisica, come far girare una trottola con
la frusta, far correre un cerchio spingendolo con un bastone
(il cerchio viene spesso raffigurato accanto alle divinità giovanili), saper maneggiare i bastoncini di legno con i quali si
poteva giocare a quello che oggi chiamiamo Sciangai o che
potevano essere utilizzati per indovinare il futuro. E, naturalmente, la palla che permetteva una gran quantità di giochi,
come Palla in aria, Palla donata, Palla rapita, Palla col bastone
ecc. (Fittà, p. 98). E poi, da non dimenticare, i giocattoli che
in tutte le epoche sono stati utilizzati (e/o destinati) ai grandi.
Le mode ludiche degli adulti si ritrovano in luoghi diversi.
Una delle più curiose è quella relativa allo Yo-yo, giocattolo
già in uso nell'antica Grecia (il Kilix, che viene anche rappresentato in alcuni vasi del V secolo a.C.) e che divenne la “follie
des parisiens” durante la rivoluzione francese. Nel 1891, mentre vacillava la monarchia costituzionale di Luigi XVI, la rivista le
Singe vert, specializzata nella vendita di Bilboquet (altro
giocattolo per adulti, che già nel Cinquecento spopolava nelle
corti francesi, anche per la sua allusione sessuale) segnalava, di
aver prodotto 25.000 esemplari di Yo-yo (Beauviala, 1997).
Maupassant, nel suo Bel-ami (fine Ottocento), ci mostra i redattori di un importante giornale parigino che giocano al
Bilboquet cercando di imitare il direttore che “era abilissimo ad in
filzare a ogni lancio l'enorme bilia di bosso giallo col puntalino di legno. E contava [i lanci riusciti]: ventidue, ventitre,
ventiquattro, venticinque...Aprendo un armadio c'erano una
ventina di splendidi bilboquet, tutti ben allineati e numerati
come i ninnoli di una collezione ... i bilboquet non sono mai
troppi” (Maupassant, p. 49). Il giocattolo Bilboquet, come le
posate di Luigi XII o i cannoncini di Luigi XIV, era considerato all'epoca un misuratore di prestigio sociale.
Con i pezzi del caleidoscopio-giocattolo potremmo anche
comporre degli accostamenti eleganti e curiosi, sistemando
nel nostro oggetto di gioco alcuni vetrini di tipologie ludiche
legate al sesso o alla provenienza geografica dei giocatori. Si
potrebbero scegliere i giocattoli destinati alle bambine o quelli pensati per i maschi, o quei giocattoli che potevano essere regalati a entrambi. La presenza di giocattoli di genere si è oggi
attenuata, ma è ancora molto presente. Basta passare un pomeriggio in un negozio di giochi per bambini per assistere a
richieste specifiche in questo senso da parte di genitori o di
nonni. Le bambole sono più spesso associate alle bambine che
non ai maschi. Le costruzioni o le macchine sono prevalentemente acquistate per i maschi. La storia delle bambole è stata
spesso raccontata. Fra le bambole moderne è interessante la
storia della Barbie, bambola che nasce nel 1959 (da una idea
di Ruth e Elliot Handler) e che presenta una serie di accessori
che in poco tempo riescono a ‘dettar moda' (fra l'altro la produzione della Barbie si collega alle grandi
firme della moda).
La bambola Barbie, all'inizio, crea anche qualche mugugno,
per le forme sessualmente ammiccanti e per l'abbigliamento
costoso e ricercato. Per alleggerire le critiche, i produttori creano la Barbie nera (1968) che sarà seguita da bambole Barbie (o
personaggi amici) sempre più sessualmente diversificate: bambole unisex, bambola gay, transgender ecc. (Amadesi, 2015).
Giocattoli e diversità di genere è un tema ancora attuale perché
si lega al problema della diversità, dell'accoglienza, della multiculturalità. In questa ottica anche i giocattoli di altre culture
possono offrirci ulteriori frammenti colorati da aggiungere al
caleidoscopio (come il kendama giapponese – che assomiglia al bilboquet
, ma offre differenti modalità per sistemare la palla sul
bastone di legno – o gli aquiloni cinesi, i trampoli brasiliani, le
cordicelle mongole, i giocattoli di bambù orientali...).
PIÙ UNO, PIÙ UNO
Il nostro caleidoscopio immaginario, come si vede dai vetrini colorati raccolti
finora, può mostrarci una miriade di figurazioni possibili. Ciascuna di esse risulterebbe sufficientemente interessante per farne una mostra o per organizzare una
collezione. Sarebbe stimolante, per esempio, raccogliere la storia dei giocattoli vista attraverso gli occhi dei giocatori (a cosa
giocavano, come giocavano...). In questo caso, probabilmente
incontreremmo narrazioni interessanti, anche ‘fuori canale',
come quella raccontata da Wolfgang Goethe – verso la metà del
Settecento – che gettava dalla finestra i piatti e le pentole della
sua cucina giocattolo per far divertire chi lo stava guardando e
lo provocava: “Fallo ancora”, gli dicevano. Nelle sue memorie
Goethe scrive: “battevo allegramente le manine ed ero molto
felice di divertirli” (Cicala, 2000, p. 26). Qui appare un legame
particolare fra il giocattolo e il giocare. In questo caso il giocattolo viene usato in maniera distorta, facendo prevalere il piacere
del gioco, al posto del gioco stimolato e indotto dall'oggetto
di gioco. Ci sarebbe molto da dire su questo aspetto ‘psico-pedagogico', che lega il gioco a un comportamento che può essere accolto o negato dagli adulti e che lega il giocattolo anche
all'istruzione dei bambini e alle proposte ludiche educative.
Gioco delle costruzioni, 1905-1910
La presenza dei giocattoli educativi (scatole di gioco e altro) risulta
ricca e variegata, così come appare dai documenti pedagogici
o didattici, che si sono sviluppati, in particolare a partire dalla
seconda metà del Settecento (Becchi, Julia 1996, p. 382). Le
scuole montessoriane fanno ancora abbondante uso di giocattoli educativi (il cosiddetto ‘materiale di sviluppo').
I giocattoli che vengono definiti ‘educativi', in un certo
senso ci sono sempre stati (dai dolcetti in forma di lettera
che nella Grecia antica si davano ai bambini, alle carte lettere
della quattrocentesca Cà Zoiosa di Vittorino da Feltre, che
aveva su alcune pareti delle immagini affrescate di giochi dei
bambini). Le tessere dell'alfabeto (presenti anche in questa
mostra) sono l'oggetto didattico più conosciuto (Staccioli,
2016), assieme alle carte didattiche (da quelle cinquecentesche di Muner che servivano per apprendere le regole del Codice di Giustiniano, a quelle storiche, geografiche, a quelle
araldiche...). Luigi XIV manipolava un gioco di carte sulla
storia francese, appositamente realizzato per lui (Biral, 2005).
Il cinquecentesco Gioco dell'Oca è sicuramente lo strumento
di gioco più diffuso utilizzato dal Cinquecento per insegnare e apprendere (D'Allemagne, 1950; Girard-Quétel, 1982;
Mascheroni-Tinti, 1981). La struttura di percorso del Gioco
dell'Oca si è prestata a infinite varianti, simulando percorsi e
viaggi avventurosi (in mostra la spedizione di Nansen al Polo Nord, 1896). I giocattoli educativi si sono particolarmente
sviluppati nell'Ottocento, man mano che si ampliava l'educazione scolastica di massa e hanno toccato praticamente tutti i
diversi settori di insegnamento: giocattoli scientifici, materiali
per imparare a leggere e scrivere, per conoscere la storia, la
religione, la geografia, le scienze o la matematica. Fra i giocattoli tecnologici destinati all'educazione scientifica dei bambini, ci sono i giocattoli meccanici. In realtà molti di
questi giocattoli erano poco manipolabili (si potevano caricare
e veder muovere), ma contengono in sé un elemento scientifico
di base: quello di provocare ‘la meraviglia' che stimola la nascita
dei “perché?”, dei “come funziona?”, o di un “posso provare
anche io?”, che sono stimoli per successive esperienze e ipotesi personali. La storia del giocattolo meccanico si perde nella
notte dei tempi. Alla fine del Cinquecento circolava in Francia
un “equilibrista in avorio e legno nero” che era molto ricercato
dalle élite dell'epoca. Nel Seicento, a Norimberga, appaiono le
vetture semoventi realizzate da un artigiano (Jean Haupt) che
costruì un motore a molla “che faceva percorrere alla piccola
vettura uno spazio di duemila passi in un'ora, senza che altra
spinta intervenisse” (Franzini, Dellanzo, 1978 p. 46). I giocattoli meccanici sono spesso legati al movimento degli animali
o delle macchine (l'autopompa, i velocipedi, le vetture, gli automi...). L'industria del giocattolo offre negli anni successivi
materiali per giocare con l'elettricità (tramvai elettrico, trenini
elettrici...) o legati al tema della conquista dello spazio (dagli
aerei ai missili). Altri giocattoli sono legati alle costruzioni (si
pensi ai cubi di Froebel), mentre il giocattolo tecnologico più
conosciuto arriva nel 1901: il famoso Meccano (in mostra una
scatola inglese dell'inizio del Novecento) inventato da Frank
Hornby che si chiamava all'inizio
Mechanics Made Easy (meccanica resa facile o “meccanica per tutti”). I giocattoli meccanici
(auto, navi, sommergibili, automi, animali, suonatori di strumenti vari...) avranno col passare del tempo diversi sistemi di
locomozione: caricati a molla con una chiave o mossi con la
forza del vapore o resi mobili attraverso impulsi elettrici, con
le pile... Fino ai giocattoli che si muovono a energia solare.
Sempre a partire dall'Ottocento troviamo i giocattoli meccanici
legati alle scoperte scientifiche: i dischi ottici dell'Ottocento, le
Lanterne magiche, (Lucchini, 2003) i fenachistoscopi e altri
oggetti che presentano immagini in movimento. Per non parlare del
boom
dei giocattoli costruiti per insegnare la “scienza dilettevole (Tom Tit, 1890),
fino a quelli attuali che fanno muovere gru, animali, automobili attraverso gli impulsi elettronici.
Le raccolte tematiche che si riferiscono ai giocattoli sono
tante: quelle che raccolgono i giocattoli da circo, quelle con
i giocattoli di guerra, quelli che si legano al teatro delle marionette e dei burattini, quelle composte da giocattoli sonori
e musicali (dai tamburi alle raganelle, agli strumenti musicali
automatici). E poi quelle che selezionano i giocattoli ottici, i
cavallucci, i trenini, i soldatini (che vengono prodotti in serie
ancora a Norimberga dalla fine del Settecento). O quelle che
si occupano solo di materiali specifici: i giocattoli di legno,
quelli di latta, quelli di stoffa... O le raccolte di immagini
iconografiche, dei libri che trattano dei giocattoli, o dei francobolli che hanno come tema il giocattolo. Julio Angel Herrador Sanchez, ad esempio, ha catalogato migliaia di francobolli
che raccontano la storia dei giochi e dei giocattoli dei bambini
(Sanchez, 2013). Fra questi spiccano anche i francobolli legati
alla pittura, a partire dai giochi di Bruegel, di Chardin, Goya,
Manet, Renoir, Murillo, Zandomeneghi ...
Insomma, per ‘vedere' le immagini che tutti i pezzi ricordati potrebbero comporre, non basterebbe un libro, un'intera
enciclopedia e neppure una biblioteca. Il numero possibile di
giocattoli da inserire in una mostra, ci ricorda piuttosto il racconto di quella gara matematica che consisteva nel pronunciare il numero più alto. I giocatori si affrontavano gridando
ciascuno un numero. Il giocatore successivo doveva dire una
cifra più alta della precedente. Uno dei partecipanti al gioco
era arrivato in finale, ma all'ultimo momento, non trovando
nessun numero più alto di quello che era stato detto dal giocatore che lo aveva preceduto, si era arreso. Tornando a casa
ripeteva fra sé e sé: “Bastava avessi detto più uno!”. Anche
nel nostro giocattolo caleidoscopico c'è sempre un “più uno”.
Allora, sapendo che i pezzi sono inesauribili, è bene chiudere
qui la nostra raccolta di ‘vetrini', magari aggiungendo soltanto un “più uno”, perché esso rappresenta ancora un'altra storia, fra le tante possibili.
In questa mostra, oltre ai giocattoli “in carne e ossa”, troviamo dei giocatori e dei giocattoli dipinti. Si tratta di una ricerca che raccoglie materiali ludici presenti nella pittura di artisti
diversi. Queste immagini ci offrono indizi e ‘vetrini' ancora
nuovi: l'oggetto rappresentato non si trova isolato dal contesto.
Ogni giocattolo vive – o ha vissuto – in un tempo preciso, in
uno spazio, con persone viventi che lo utilizzano o che lo hanno usato. Nel caso della pittura, i giocattoli prendono vita e
trasmettono il profumo di una emozione o di un'epoca. “Dimmi con chi stai e ti dirò chi sei” dice un vecchio proverbio. I
giocattoli nella pittura ‘stanno' embedded in uno spazio preciso,
con oggetti, persone, ambienti, animali che li accompagnano.
Questo ci consente di vedere con occhi ancora più curiosi il
caleidoscopico mondo dei giocattoli.
DIMMI COME GIOCHI ...
Proviamo a vedere e a ri-vedere assieme alcune di queste
immagini presenti nella mostra. Tutti i giocattoli-quadro presenti si situano in luoghi precisi: la casa, la scuola, l'aria aperta. Tre luoghi simbolo, segnati in modo diverso dalla presenza/assenza degli adulti, dagli oggetti ludici, dalle modalità di
gioco, dalle relazioni che si instaurano. Ri-vedere queste immagini ci consente di porci alcuni interrogativi. Quali sono i
giochi che venivano giocati in questi tre luoghi? Che cosa ci
raccontano dell'infanzia? Qual è il ruolo degli adulti? Quali
tipologie di gioco vengono riportate? Quali messaggi culturali vengono indirettamente trasmessi attraverso il giocattolo?
Come si presentano i compagni di gioco? Sono tutte domande che aprono a letture diverse e a osservazioni infinite. Daremo solo una leggera pennellata al quadro caleidoscopico che
queste immagini ci offrono, partendo da alcuni quadri che ci
mostrano i giocattoli nella famiglia, nella vita scolastica, nei
giochi all'aperto.
POMPEO BORRA - Due sorelle, 1927
I giocattoli all'interno della casa sono quelli rappresentati più frequentemente: la palla, il cavallo a dondolo, il tamburo, la bambola, la maschera... I giocattoli a volte appaiono da soli, senza qualcuno che li stia usando. Sono più un simbolo, una memoria, un ricordo (piacevole o meno) di un tempo perduto e oramai lontano. Sono giocattoli di un tempo distaccato, un po' triste. I balocchi di Nenella (Fausto Vagnetti, 1934), quelli di Corrado Cagli (Il giorno di San Giovanni, 1933) vivono autonomamente, senza una presenza umana visibile. Talvolta, anche se questi giocattoli si trovano accanto a bambini (come nella Scena d'interno con fanciulli di Giuseppe Barison, 1880), essi restano muti. Sono oggetti a disposizione dei bambini, ma in queste opere non vengono usati. Quando i bambini sono ritratti con i loro giocattoli, non stanno giocando: gli oggetti di gioco sembrano più un rifugio consolatorio, in attesa di una presenza adulta che manca o di una mamma che rProviamo a vedere e a rivedere assieme alcune di queste immagini presenti nella mostra. Tutti i giocattoli-quadro presenti si situano in luoghi precisi: la casa, la scuola, l’aria aperta. Tre luoghi simbolo, segnati in modo diverso dalla presenza/assenza degli adulti, dagli oggetti ludici, dalle modalità di gioco, dalle relazioni che si instaurano. Rivedere queste immagini ci consente di porci alcuni interrogativi. Quali sono i giochi che venivano giocati in questi tre luoghi? Che cosa ci raccontano dell’infanzia? Qual è il ruolo degli adulti? Quali tipologie di gioco vengono riportate? Quali messaggi culturali vengono indirettamente trasmessi attraverso il giocattolo? Come si presentano i compagni di gioco? Sono tutte domande che aprono a letture diverse e a osservazioni infinite. Daremo solo una leggera pennellata al quadro caleidoscopico che queste immagini ci offrono, partendo da alcuni quadri che ci mostrano i giocattoli nella famiglia, nella vita scolastica, nei giochi all’aperto.
ALBERTO MAGRI - Il gioco della corda, 1912
I giocattoli all'interno della casa sono quelli rappresentati più frequentemente: la palla, il cavallo a dondolo, il tamburo, la bambola, la maschera... I giocattoli a volte appaiono da soli, senza qualcuno che li stia usando. Sono più un simbolo, una memoria, un ricordo (piacevole o meno) di un tempo perduto e oramai lontano. Sono giocattoli di un tempo distaccato, un po' triste. I balocchi di Nenella (Fausto Vagnetti, 1934), quelli di Corrado Cagli (Il giorno di San Giovanni, 1933) vivono autonomamente, senza una presenza umana visibile. Talvolta, anche se questi giocattoli si trovano accanto a bambini (come nella Scena d'interno con fanciulli di Giuseppe Barison, 1880), essi restano muti. Sono oggetti a disposizione dei bambini, ma in queste opere non vengono usati. Quando i bambini sono ritratti con i loro giocattoli, non stanno giocando: gli oggetti di gioco sembrano più un rifugio consolatorio, in attesa di una presenza adulta che manca o di una mamma che ritornerà, come in Giochi infantili di Francesco Gioli (1875). Oppure sono giocattoli che stanno in braccio a bambini seri e tristi, come nel Ritratto di Gustavo di Riccardo Francalancia, dove un solitario e paffuto fanciullo sembra dirci: “possiedo, ma non sono felice”. La bambina sul cavalluccio di Bruno Saetti (1932) non ha quasi espressione e quella di Lloyd (La figlia Gwendolen, 1918) è distante e corrucciata... In queste immagini il mondo del gioco sembra quasi estraneo all'infanzia: i piccoli hanno i giocattoli, li possiedono, ma non li vivono. Bambine e bambini ben vestiti hanno giocattoli, ma non hanno vibrazioni ludiche trasmesse da ciò che tengono vicino. Questi giocattoli sono più oggetti consegnati ai bambini dagli adulti, forse per lenire il loro senso di colpa o per inseguire l'immagine di un'infanzia ludica non pienamente vissuta. Sono giocattoli che trasmettono piuttosto la solitudine dell'infanzia, il vuoto incolmabile fra il mondo degli adulti e quello dei bambini. Solitudine anche fra bambini. Come I bambini del quadro di Fausto Pirandello (1942) che ci mostra due ragazzi uno vicino all'altro, ciascuno con un giocattolo in mano: ma non si guardano, né si toccano. Con qualche eccezione, certo. Ma anche con qualche ambiguità. La bambina che versa il the (Federico Zandomeneghi, La tazza di the, 1903) sta compiendo un gioco simbolico o sta mostrando alla mamma di essere educata, servizievole, una ‘brava bambina' compita e addestrata per una vita borghese e profondamente piatta? E' una bambina che gioca o una bambina alla quale viene chiesto di essere l'adulto che deve diventare? La ragazzina che gioca col pianoforte (to play, ha il significato anche di suonare), non ha molto di ludico. Non a caso il titolo dell'opera è Lezione di piano (Mario Mafai, 1934) e le lezioni si impartiscono, non sono giochi. Insomma, la mostra ci presenta bambini di buona famiglia che giocano perché “i bambini devono giocare”, ma sono bambini che devono farlo rispettando le regole: con calma, in silenzio, restando a distanza dagli adulti, senza scomporre la patina borghese che copre la tappezzeria o gli oggetti del salotto. Questa infanzia fatta di bambine vestite a modo, composte e statiche (e fondamentalmente tristi) ci danno la cifra di un'idea di giocattolo nella famiglia che evoca riti e modelli fortemente legati ad attese provenienti dal contesto sociale. La scuola tradizionalmente nega il gioco. La scuola è per definizione il luogo dell'apprendimento, del tempo utile, il momento del lavoro. Il gioco ne è rimasto escluso per secoli. Se si eccettuano episodiche situazioni, il massimo che la scuola ha saputo offrire è stata (ed è) la ricreazione e il gioco didattico. Nella sezione Educazione troviamo bambini che leggono, bambini che scrivono, bambini che fanno calcoli alla lavagna (il tradizionale leggere/scrivere/far di conto). Bambini spesso soli, ma anche con un appoggio affettivo dato dalla sorella più grande (Pompeo Borra, Due sorelle, 1927) o dalla mamma (Giacomo Balla, Affetti, 1910). Come dire: quando i bambini studiano, allora l'intervento di sostegno viene ben visto. Quando i bambini giocano, invece no. In queste immagini il giocattolo e il gioco a scuola sono praticamente inesistenti. Eppure – a ripercorrere la storia della scuola – si potrebbero trovare molti esempi di giochi: dalle cinquecentesche carte di Murner, ai materiali froebeliani o montessoriani, agli oggetti tecnologici e robotici di oggi. Tra la casa e la scuola appare poi uno ‘spazio intermedio', il luogo dove gioco e giocattolo si incontrano: le attività all'aria aperta. Qui il gioco con i giocattoli non si differenzia fondamentalmente dal gioco senza i giocattoli: in ambedue i casi prevale il come se, appare un realistico mondo irreale, una verità falsa, un essere e non essere che danno – al tempo stesso – libertà e vincoli, un luogo dove si può inserire del personale, in un mondo già regolato e predisposto dagli adulti. All'aria aperta si aggiunge una dimensione motoria e regolativa, quando il gioco/giocattolo, viene condiviso. Nei giochi all'aperto dei quadri ecco le tre bambine che si scambiano un segreto (Giovanni Primi,1902), ecco il salto della corda rappresentato da Magri e da Balduini (gioco cooperativo), ecco i tre ragazzi con un tavoliere (gioco collaborativo), ecco il tennis e le bocce (giochi di opposizione). Anche per i giochi all'aperto vale quanto detto per la scuola: la quantità di giocattoli e di giochi con oggetti potrebbe dilatarsi all'infinito. Lar iconografia classica, a partire dal Cinquecento, ci consegna ad esempio Bruegel con i suoi Giochi di bimbi (1560), Nicolas Prévost (1589) con un centinaio di giochi presentati nelle sue Trente-six Figures, Giacomo Stella con Les jeux et les plaisirde l'enfance (1667). Ma, come detto all'inizio, il caleidoscopico mondo del giocattolo sembra fatto apposta per farci desiderare di continuare a vedere le sue infinite combinazioni. Ci si può fermare su una immagine, ma si può continuare a trovarne di nuove. Per scoprirle basterebbe mantenere quella curiosità e quella freschezza, che sono due degli ingredienti fondamentali del giocattolo e del gioco infantile. Giocare come bambini non è un gioco da ragazzi. Perché è principalmente il giocatore che può ruotare il cilindro in modo da mantenere la meraviglia della scoperta, in modo da conservare l'incertezza del come se e il piacere di quel giocare all'infinito, che non si arresta con il crescere delle età. Come recita l'aforisma di George Bernard Shaw: l'uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia quando smette di giocare.
FORTUNATO DEPERO - Bozzetto di manifesto per la Casa d'Arte Bragaglia, 1921
LA ROBOTICA DAL MISTERO AL GIOCO
Paolo Dario
Scienza e tecnologia sono da sempre collegabili al mondo della cultura e dell'arte, e il titolo di questa mostra segna un trait d'union molto concreto tra di essi e con origini storiche solide. L'intersezione tra arte e tecnologia non riguarda solo semplici raffigurazioni di macchine, robot e cyborg nella letteratura e nelle arti figurative. Si tratta di un binomio ben più profondo e radicato nella nostra tradizione artistica, culturale ed educativa, che risale fino ai tempi antichi, in cui la tecnica ha avuto un ruolo cruciale nel processo creativo e nello sviluppo di nuove forme d'arte. Il tema dei giocattoli non è scorporato dal connubio arte e tecnologia e ne rappresenta un'applicazione possibile al tema della creatività, come vedremo nel prosieguo. L'evoluzione della robotica moderna, all'incrocio tra il sogno, quello di una società dove i robot sono compagni, possono imitare la Natura e replicare l'Uomo, e il bisogno di costruire macchine utili alla vita e al lavoro dell'Uomo, muove da una serie di riferimenti che compongono uno scenario dalle interessanti prospettive di collaborazione fra umanisti e scienziati. Il mondo dello spettacolo ne è un esempio calzante: dalle antiche maschere del teatro greco ai macchinari da palcoscenico nel Rinascimento, dagli automi dell'Illuminismo fino alle grandi innovazioni del XXI secolo. Allo stesso tempo il mondo della scienza e della tecnologia ha fatto passi in avanti grazie agli stimoli creativi derivanti da artisti come Leonardo Da Vinci o scrittori di fantascienza come Isaac Asimov e Philip K. Dick, e persino registi di cinema come Fritz Lang e David Cronenberg. Gli automi esistono già nella mitologia, nella letteratura e nella storia, e attraversano tempi e culture diverse. Ai tempi di Omero il primo creatore di ‘macchine' fu un dio dell'Olimpo, Efesto, il dio del fuoco, delle fucine, dell'ingegneria, della scultura e della metallurgia, al quale si devono molte prodigiose creazioni, quali la mitica nave Argo e la costruzione di macchine semoventi, e persino, nella mitologia classica, quella di servi meccanici, in forma di intelligenti damigelle, o tavoli a tre gambe dotati di movimento autonomo. Tra il V e il IV secolo a.C. il mondo del mito lascia progressivamente il passo alla scienza, contribuendo attraverso la meccanica antica al progresso della tecnica e delle teorie sugli automi, i quali a questo punto diventano a tutti gli effetti prodotti dell'uomo. Aristotele, il filosofo di Stagira istitutore di Alessandro Magno, fu un vero pilastro della nuova stagione. “Se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione o dietro un comando o prevedendolo in anticipo, come si dice delle statue di Dedalo o dei tripodi di Efesto... e le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra, i capi artigiani non avrebbero davvero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi” [Aristotele, Politica I [A], 4, 1253b]. In età ellenistica fu grande la qualità del contributo di ingegni come Archimede alla rivoluzione scientifica e tecnologica, che diedero vita a princìpi di fisica, matematica, meccanica e astronomia validi ancora oggi. Ma non solo. Nella cena di Trimalcione descritta da Petronio nel Satyricon, si assiste all'entrata in scena di un servo che “portava tra le mani una figurina d'argento, fatta in maniera tale che tirando o allentando un filo, gli arti e le vertebre si muovevano da tutte le parti. Trimalcione la posò sulla tavola e azionando il meccanismo le fece assumere varie posizioni” (Petronio, Satyricon, 34). Anche la semantica suggerisce alcuni significati insiti nei termini che utilizziamo quotidianamente, alcuni persino più simili tra loro di quel che non si possa immaginare soltanto evocandoli. Ad esempio, ad ‘arte' e ‘tecnologia' diamo in generale accezioni molto diverse. Può forse stupire sapere che la parola ‘tecnologia' proviene dal greco: tékhne + loghìa, che vuol dire discorso/trattato sull'arte, e si collega a tékton, ‘falegname', e che la parola ‘arte' è invece intesa nel senso di ‘saper fare', l' “abilità in un'attività produttiva”. L'artista, ovvero il tecnico, conferisce una forma, che è ciò che si rende immediatamente visibile, al legno ancora informe. I filosofi, e Platone in particolare, non amavano questa visione di arte e tecnica, considerando queste ultime strumenti per tradire e distorcere la chiarezza delle forme intellegibili (le Idee) quando trasferite nel mondo materiale. Secondo Platone artisti e tecnici sono cioè ‘imbroglioni' nello svolgimento del loro compito di “traduttori delle idee”. Passando dal greco al latino, la traduzione del greco téchne è ars. Il diminutivo di ars, articulum (piccola opera d'arte), indica qualcosa che, ruotando, si muove intorno a un perno (per esempio, il polso), e sottintende quindi un concetto di agilità e destrezza. Da qui artifex, l'artista, un ‘imbroglione': è il prestigiatore, come testimoniano parole quali ‘artificio', ‘artificiale' e persino ‘artiglieria'. Il termine ‘meccanica' invece è associato a un concetto di astuzia e insidia. E' il termine che più degli altri riporta agli automi e al loro processo di costruzione. L'origine greca, mecanè, non lascia dubbi: vuol dire astuzia, artificio, inganno. Da qui méchos, macchinario, ovvero un dispositivo escogitato per trarre in inganno, una trappola quale fu il Cavallo di Troia. E Ulisse viene chiamato polymechanicòs, per definirlo astuto. In qualche modo la meccanica nell'antichità era considerata come qualcosa ‘contro natura' che non produceva risultati utili, ma soltanto meraviglia (contrariamente, ad esempio, alla medicina). Bisognerà arrivare a Galileo Galilei per capire quanto la meccanica possa essere uno strumento efficace per padroneggiare la natura e in un certo senso servirla. A questo punto essa diviene scienza esatta, ‘meccanica razionale', e nessun'altra scienza viene identificata con questo aggettivo esornativo. Galileo mostra che non c'è alcuna magia nel funzionamento di una leva, ma soltanto solidi principi. Non solo in Occidente vengono concepiti dispositivi complessi. Tra il 1204 e il 1206 allo scienziato arabo Al-Jazari si deve il Libro della conoscenza dei meccanismi ingegnosi, oggi considerato importante antesignano della meccanica araba. Lo scienziato progettò veri e propri meccanismi di carattere ‘robotico', contribuendo a far raggiungere elevati gradi di raffi natezza alla cultura degli automi già nel secolo XIII. Nel Golem del folclore ebraico elaborato fra l'XI e il XVI secolo, una statua di argilla viene animata dalla magia cabalistica, creata dai fedeli con le sembianze desiderate e animata dalle danze e dalle preghiere dei rituali religiosi. Famose anche le bambole giapponesi Karakuri dell'Era di Edo, fra il 1600 e il 1867, fonte di divertimento sia per i nobili sia per la popolazione, e che testimoniavano, attraverso i manuali necessari alla loro costruzione, già l'elevato grado di cultura robotica a fondamento dell'odierna cultura ingegneristica del Giappone (che lo ha reso successivamente patria della robotica). Il primo vero progetto di robot umanoide dell'età mo- derna è l' ‘automa cavaliere', conosciuto anche come il ‘robot' di Leonardo, del 1495: un umanoide che rispettava già le proporzioni dell'Uomo vitruviano. Il corpo meccanico veniva azionato da un sistema di cavi che rappresentavano muscoli e tendini, e da un sistema di manovelle esterno che serviva a muovere le gambe. Testimonianze da Vasari a Buonarroti parlano anche di un altro automa progettato da Leonardo, a forma di leone (e altri ce ne potrebbero essere), di cui però non esiste alcuna dimostrazione. Nel 1738 Jacques de Vaucanson realizzò un'anatra meccanica, probabilmente il primo ‘robot' funzionante, che si muoveva grazie a un sistema di pesi, camme e leve. Vaucanson fabbricò anche un androide suonatore di flauto, capace di movimenti complessi. Diversi gli esempi di ‘proto-automi', meccanismi non programmabili e non autonomi, rudimentali ma affascinanti, in parallelo allo sviluppo dei quali si andava anche delineando un affascinante panorama di letteratura fantascientifica riguardante in particolare la robotica. Il termine ‘robot' è stato introdotto proprio da uno scrittore, il ceco Karel Čapek, che vi ricorse per la prima volta nel 1920 nel dramma R.U.R. (Rossum's Universal Robots). La parola ‘robot' deriva dal termine ceco robota, che significa ‘lavoro forzato' e Čapek la utilizzò come nome degli automi che agiscono come operai nel suo dramma: in ‘robot' sono impliciti un lavoro e un automatismo che, su un oggetto che altrimenti sarebbe ‘inanimato', gli attribuiscono un ‘comportamento'. Anche il fratello Josef, scrittore e pittore cubista, aveva impiegato il termine automat, ovvero automa, in un racconto del 1917 (Opilec, ossia L'ubriacone). Il termine greco autòmaton significa “che si muove da sé”. Termini affini sono ‘androide' (dal greco anèr, andròs, ‘uomo', e che quindi può essere tradotto ‘a forma d'uomo'), e cyborg (‘organismo cibernetico' o ‘uomo bionico'), che indica una creatura che combina parti organiche e parti meccaniche. Il termine ‘robotica' venne usato per la prima volta nel racconto di Isaac Asimov, Circolo vizioso (Runaround, 1942), presente nella sua famosa raccolta Io, Robot, che riportava le Tre regole della robotica (in seguito le Tre leggi della robotica). Il grande successo del libro ha di fatto canonizzato la duratura fortuna della parola e del concetto. Oggi la robotica ha conosciuto un grande sviluppo, dapprima principalmente in ambito industriale, con macchine riprogrammabili a molti ‘gradi di libertà', capaci quindi di effettuare movimenti e compiti cinematicamente complessi per lavorare in ambienti ‘strutturati' (cioè ben organizzati e prevedibili) e limitati, generalmente lontano dall'operatore umano. In un secondo momento, con l'uso di sensori, il robot è diventato in grado di percepire il contesto in cui opera e le sue variazioni, evitando di nuocere a un essere umano. Uscendo dalle gabbie, il robot è diventato sempre più piccolo, antropomorfo e collaborativo, definendo settori in assoluta espansione che sono quelli della robotica di servizio e della robotica sociale. I robot saranno sempre più tra noi e lo sono già, non solo nelle fabbriche ma anche a casa, per strada, negli ospedali, lo sono dentro o addosso al nostro corpo fino a diventarne parte per raggiungere obiettivi oltre che fisici anche cognitivi. In generale il robot riveste e rivestirà sempre più un nuovo ruolo sociale, declinandosi in vari ambiti. Robot per intrattenimento, assistenza, aiuto in situazioni di pericolo per l'uomo non sono più fantascienza ma una prospettiva di sviluppo della nostra società, un'opportunità e una scommessa da vincere, qualcosa che ha il potenziale di offrire nuove opportunità di investimento al capitale, cambiando radicalmente il rapporto tra capitale e lavoro, laddove ci si convinca che la paura di sostituzione dell'uomo con i robot potrebbe essere convertita nell'opportunità dell'assistenza e della cooperazione, e quindi di una nuova concezione del lavoro. Un'opportunità innanzitutto per lo sviluppo del nostro Paese, una scommessa da vincere nello scenario internazionale della quarta rivoluzione industriale, quella che può dare valore e forza alla tradizione manifatturiera attraverso l'uso delle nuove tecnologie. Lo sviluppo della robotica interessa ambiti svariati che non riguardano solo economia e lavoro, ma entrano nel diritto e nella filosofia, osservano le implicazioni psicologiche, antropologiche e culturali legate all'introduzione dei robot anche solo parzialmente autonomi nella nostra società e si pongono interrogativi fondamentali al progresso della società. Tra tutti, anche il binomio tra arte e tecnologia, ripercorrendo la dimensione iniziale del gioco, piuttosto che quella dell'utilità dell'arcano, può avere degli aspetti di stimolo di nuove forme di creatività e contribuire in questo senso a una consapevolezza più profonda nel campo tecnologico-scientifico: da una parte, con la divulgazione scientifica, attraverso linguaggi anche molto diversi che migliorano la comprensione e la sensibilità su argomenti scientifici, e dall'altra favorendo il trasferimento di nuove idee e tecniche generate dall'arte, con approcci e applicazioni innovative e non convenzionali dettati dalla robotica e dai suoi sviluppi. Può davvero la tecnologia generare arte? Mario Costa, un filosofo contemporaneo, dice che “l'arte è una estetizzazione della tecnica” (da L'estetica dei media: avanguardie e tecnologia, 1990). Tecnica - un modo con cui esprimere il saper fare - e tecnologia - uno strumento di realizzarlo - possono contribuire all'arte: tanto per fare un esempio, la pittura a olio è una ‘tecnica' di pittura che ha determinato una forma d'arte specifica. Oggi si parla persino di ‘arte robotica', uno di quei casi in cui lo strumento rappresenta insieme la tecnica e il suo risultato. Può l'arte robotica essere ‘in effetti' arte? “Uno degli aspetti più problematici della cosiddetta arte robotica è la definizione stessa di ciò che è un robot” (Foundation and Development of Robotic Art, in “Art Journal”, 1997). A sostenerlo è E. Kac, artista brasiliano che indaga le dimensioni filosofiche e politiche dei processi di comunicazione. E J. Engelberger, uno dei padri fondatori della robotica industriale, ha affermato: “Non posso definire cos'è un robot, ma lo riconosco se lo vedo”. Quali sono le caratteristiche di riconoscibilità di un robot? Popolarmente, un robot viene considerato tale quando un oggetto fisico, nell'accezione più generica - ovvero ‘umanoide', quindi dotato di aspetto umano, è situato in un dato ambiente con proprietà di autonomia e ‘intelligenza'. Alla base di tale intelligenza, che consente i movimenti e che quindi ‘anima' il robot, sta il concetto di ‘programmabilità', ovvero l'abilità di eseguire un'azione pianificata secondo una specifica sequenza di azioni volta allo svolgimento di un dato compito, corredata dalla possibilità di attribuire all'artefatto un ‘comportamento' che gli deriva dalle proprietà fisiche che ne rendono possibile l'esecuzione stessa. In effetti esistono varie opere che, se anche non rientrano in una generica accezione di arte robotica, hanno comunque a tema principale la rappresentazione di un robot. Ad esempio, Forme uniche della continuità nello spazio, del 1913, di Umberto Boccioni, raffigurato nelle nostre monete da 20 centesimi. Eppure, nonostante rappresentino robot o figure affini, le opere in cui manchi l'elemento della programmabilità non rientrano nella definizione di arte robotica. L'opera antesignana dell'arte robotica si fa risalire agli anni Sessanta, quando Edward Ihnatowicz (1926-1988) realizzò una scultura robotica controllata da un computer. L'opera, in cui l'aspetto del controllo presumeva in modo evidente l'elemento della programmabilità, diede origine alla nuova area. La scultura era stata programmata per interagire con gli spettatori, e in questo senso diveniva anche ‘soggetto' nel contesto di un ambiente con il quale interagiva. A sua volta, tale interazione comportava un ritorno ovvero una ‘risposta' dell'ambiente (in questo caso il pubblico di spettatori) sul soggetto stesso, rendendolo ‘sensibile' alle sollecitazioni percepite, in quanto capace di mutare in funzione di esse, ovvero in modo ‘intelligente' il suo comportamento: ecco che il robot diviene ‘soggetto', appunto, artistico. Il gioco in un certo senso sintetizza il reciproco rapporto tra arte e robotica, contribuendo a innescare nuove forme di creatività, a ispirare visioni innovative sin da tenere età, favorendo la crescita e stimolando un'etica specifica e una sensibilità estetica.
Automa, Giocoliere, 1920-1930
Oltre che sintetizzare le interazioni tra la robotica e le varie forme d'arte e della costruzione del sapere, attraverso il gioco, grazie alla ‘robotica educativa', è possibile promuovere il dialogo tra le discipline scientifiche e le discipline umanistiche, con la capacità di potenziare settori culturali che derivano dall'abbattimento delle barriere tra discipline e contribuiscono alla formazione di nuovi sistemi di crescita sociale ed economica basati sulla cultura dell'innovazione. Giocare attraverso la tecnologia è un modo di capire qualcosa che irrimediabilmente oggi appartiene alla nostra vita quotidiana, entrando nel futuro con l'apertura mentale di chi si dispone alla curiosità e alla conoscenza, allo stesso tempo divertendosi. Esiste già sul mercato tutta una serie di giocattoli robot programmabili e alcuni di essi vengono utilizzati come strumenti didattici nel campo della robotica educativa. Si parte da piattaforme molto semplici da utilizzare, adatte ai bambini. Grazie ai pulsanti è possibile già in tenera età capire come programmare dei percorsi sul piano con una serie di azioni, quali andare avanti e indietro, orientare spazialmente, memorizzare una sequenza di istruzioni ed eseguirle, gestire gli errori. Le piattaforme per iniziare alla robotica fin dalle scuole primarie consentono di progettare e costruire il primo robot imparando a distinguere la varie componenti, a utilizzare i sensori e a programmare nell'ambito di progetti educativi dedicati. Si passa poi a strumenti più elaborati e persino sofisticati per i ragazzi più grandi, come nel caso di piattaforme hardware composte da una serie di schede elettroniche dotate di microcontrollore con semplici ambienti di sviluppo integrato per la sua programmazione, con cui si possono realizzare piccoli dispositivi che utilizzano sensori, attuatori e comunicano con altri dispositivi; o piattaforme di moduli elettronici per creare dispositivi elettronici, quali, persino, macchine telecomandate o dispositivi per la casa intelligente; o, infine, veri e propri robot umanoidi dal grado di complessità più elevato, dotati di molti sensori e in grado di reagire agli stimoli e di interagire in molte lingue e linguaggi, grazie ai quali sono possibili anche progetti di robotica sociale. I giocattoli sono uno degli strumenti chiave utilizzati per educare nuove e migliori risorse umane: chi progetterà le macchine e saprà affrontare problemi sempre nuovi e sempre più complessi? Come faranno i nostri giovani a entrare in un futuro sempre più governato dalla tecnologia, qualunque sia l'ambito in cui decidano di operare? E' necessario che gli educatori riflettano sulle competenze di cui necessitano i nostri giovani oggi per governare nel modo giusto la transizione dal ‘tradizionale' al ‘nuovo'. La robotica educativa ha anche un altro merito fondamentale, quello di fare dell'immaginazione un metodo, in un certo senso, verificabile nella realtà attraverso la replicazione tecnologica. Aurelio Peccei, un grande imprenditore italiano, manager della FIAT e fondatore del Club di Roma (un'associazione non governativa e non-profit di scienziati, economisti, uomini d'affari e attivisti dei diritti civili), sosteneva che l'anticipazione, più che l'adattamento, è la chiave del futuro. Reiterare acriticamente le conoscenze acquisite nel passato non genera sviluppo, mentre un immaginario generato dall'interazione tra diverse discipline che può stimolarlo. L'Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant'Anna, con sede a Pontedera, non a caso ha ideato un percorso che copre tutta una filiera educativa che dalle scuole primarie arriva al post-dottorato, rivolgendosi a chi dopo il diploma intraprende la carriera universitaria ma anche a chi decide di lavorare, percorso che comprende l'educazione sin dai primi anni, la formazione professionale e la formazione alla ricerca. Ma che al contempo si fonda su una concezione olistica della cultura, che è tecnico-scientifica ma è anche umanistica in tutte le sue possibili declinazioni. Il modello a cui ci siamo ispirati è quello dell' ‘ingegnere inventore', con cui vogliamo educare l' ‘ingegnere del XXI secolo', ispirandoci alla grande figura di Leonardo da Vinci che nacque poco distante dal territorio in cui ha sede il nostro Istituto. L'ingegnere del XX secolo era il prodotto di un'industria, quella della post-rivoluzione industriale, in cui gli ordini arrivavano da un vertice, mentre operai e macchine, alla base del sistema di produzione del valore, li eseguivano. L'ingegnere veniva educato ad accettare le istruzioni su specifiche e a convertirle in output tecnici funzionali alla realizzazione delle direttive ricevute. Questo tipo di figura professionale è oggi considerata obsoleta rispetto alle necessità del progresso dovute agli sviluppi continui e poderosi della società. Nella nostra concezione, quello che occorre è un ‘nuovo' ingegnere, che si differenzi dalle figure del passato in quanto capace di governare i cambiamenti e le opportunità per la società e per l'industria, per essere un ‘organizzatore di creatività' in grado di trovare connessioni e intersezioni tra discipline diverse, e per risolvere ‘problemi', più che studiare materie, secondo la visione di Karl Popper, con una visione globale combinata con una formazione in profondità e con la capacità di formulare un ‘pensiero sistemistico', che comprende spirito imprenditoriale, competenze forti e attenzione ai problemi sociali. Come raggiungere un obiettivo così ambizioso? A partire da un “modello europeo per l'educazione del nuovo ingegnere” basato su inter-disciplinarità fra discipline tecniche e trans-disciplinarità fra l'ingegneria, le scienze della vita e le scienze sociali e umane; con il presupposto che l'innovazione ‘vera' - ovvero non quella incrementale, ma quella disruptive, cioè radicale, quella in grado di cambiare uno stile di vita o le abitudini, la fanno gli innovatori e non le macchine. Le invenzioni si devono all'uomo, a lui i nuovi prodotti. Educare nuove e migliori risorse umane alla cultura della creatività, oltre che formare con solide competenze di base, è un punto fondamentale e strategico per lo sviluppo del Paese. Una società che voglia giocare un ruolo importante nel futuro deve dunque saper formare i suoi innovatori. La robotica educativa è utile a questo: a costruire una vera cultura dell'innovazione già dalle scuole, giocando, coinvolgendo i giovani in grandi sfide e in obiettivi ‘alti' e stimolanti, sensibilizzandoli e allevandoli alla cultura della ricerca, della tecnologia, della scienza, al contempo ispirandoli e dando loro la possibilità di creare nuove opportunità, soprattutto con riferimento al mondo del lavoro. Non dimentichiamo inoltre che la robotica è ‘discendente' ad alta tecnologia della tradizione italiana dell'artigianato, della meccanica, della meccatronica ed è profondamente vicina alla nostra cultura industriale e manifatturiera. Questo dà modo agli educatori di sperimentare nuove possibilità per la didattica - in qualsiasi ambito disciplinare e non necessariamente tecnico-scientifico - perché consente una partecipazione attiva dando ai bambini e ai ragazzi la capacità del fare superando la frammentazione del sapere. Non a caso l'ingegneria è sempre più orientata verso la scienza, allo scopo di offrire una visione culturale molto più solida e molto più ampia che nel passato. La vera alleanza culturale strategica oggi tra scienza, tecnologia e scienze umane punta su un insieme che consente soluzioni al di là della provenienza formativa. “Tutti gli sforzi tesi a classificare e a distinguere le discipline costituiscono una questione relativamente priva di importanza e superficiale”, sosteneva Karl Popper. La tecnologia deve fondersi con le scienze umane e la cultura umanistica, che a sua volta deve poter procedere nella direzione dell'innovazione e aprirsi con curiosità e disponibilità agli stimoli posti dalla tecnologia (e può farlo grazie alla robotica educativa), questo è il presupposto di una cultura scientifica efficace. Parlando di questo mi piace ricordare Steve Jobs, il fondatore della Apple, e il suo celebre discorso pronunciato alla Stanford University, in occasione del Commencement, ovvero della fine dei corsi (12 giugno 2005), un discorso in tal senso illuminante. “Connecting the dots”, disse ai ragazzi, “unite i puntini”, spiegando che non è possibile connettere i punti (delle conoscenze che si vanno acquisendo) guardando in avanti, ma solo guardando all'indietro, e invitandoli dunque ad avere fiducia nel fatto che i punti in qualche modo si sarebbero connessi nel loro futuro. La scuola e la cultura, in particolare la cultura classica, sono proprio quei punti, quelle conoscenze e quelle sensibilità profonde, che si connetteranno solo nel futuro. È dunque sbagliato pensare che un ingegnere davvero moderno debba avere una educazione esclusivamente specialistica; il modello cui guardare è quello di un ‘ingegnere rinascimentale' del XXI secolo, al di là del fatto che consegua la laurea in ingegneria, e il cui processo educativo si costruisca attraverso ‘blocchi' di competenze a partire da quelle specialistiche. Di tali blocchi di competenze fanno parte la sensibilità artistica, la capacità di gioia nell'apprendere e di divertirsi imparando, l'inclinazione all'etica e al sociale, la possibilità di muoversi con competenza e disinvoltura fra le diverse discipline, e anche di aprirsi e dialogare con altre comunità, sia scientifiche sia umanistiche. Queste cose possono impararsi sin da piccoli, stimolando la creatività con il gioco. Il contrario del gioco non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale (Sigmund Freud).
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