La mostra a Milano rappresenta la Grande Guerra non come un fatto isolato, ma ricercando le tensioni che ne anticipano l’esplosione già nel periodo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, momento in cui le certezze della Belle Époque, lunga stagione caratterizzata dall’ottimismo e dall’incondizionata fiducia nei valori del progresso e della tecnica, precipitano nella drammatica realtà del conflitto. Il percorso prosegue con uno sguardo agli anni immediatamente successivi, che vedranno sfociare la storia del nostro paese in un’altra controversa stagione, quella del Fascismo. Si inizia con un’indagine sui movimenti come il Liberty, o Art Nouveau, il Simbolismo e il Divisionismo, per poi focalizzarsi sugli artisti che parteciparono in prima persona al conflitto e sull’affermarsi delle nuove avanguardie, come il Futurismo, che rappresentarono un decisivo punto di svolta rispetto alla società ottocentesca. La rassegna si conclude con gli artisti che si dedicarono alla celebrazione della vittoria e alla costruzione del mito della Grande Guerra in anni che in parte coincisero con l’ascesa del fascismo. In mostra, tra gli altri, autori come Giacomo Balla, Cagnaccio di San Pietro, Pietro Canonica, Galileo Chini, Mario De Maria, Achille Funi, Arrigo Minerbi, Plinio Nomellini, Gaetano Previati, Ottone Rosai, Giulio Aristide Sartorio – di cui viene esposto quasi al completo il ciclo Poema della vita umana –, Gino Severini, Adolfo Wildt.
L'ABISSO
Fernando Mazzocca
L'inquietudine del ventennio precedente la Grande guerra ha investito sia la dimensione collettiva che quella esistenziale. Da un lato si avverte un diffuso smarrimento per la questione sociale rimasta irrisolta, sfociata in una sempre più aspra lotta di classe, e per una politica imperialista, incoraggiata da Crispi che "roso dall'ansia della grandezza della patria" si era lanciato nelle guerre coloniali, miseramente fallita nelle disastrose sconfitte di Dogali nel 1887, di Adua nel 1896 e in quella, meno nota, di Sciara Sciat in Libia nel 1911 durante il governo Giolitti; dall'altro si diffondevano la nevrosi e la depressione, indici della crisi esistenziale sempre più profonda dell'uomo moderno.
Essa era soprattutto collegata a quel diffuso sentimento dell'esaurimento di una civiltà che sarà interpretato nel 1913 da Oswald Spengler ne Il tramonto dell'Occidente, dove sosteneva appunto che "ogni civiltà ha le sue nuove possibilità di espressione, che appaiono, maturano, appassiscono e non ritornano mai più". Ma già Nietzsche nella sua opera più popolare, Così parlò Zarathustra, composta tra il 1883 e il 1885, aveva saputo farsi interprete delle aspirazioni e delle ansie contemporanee, come nel passo dove viene evocato il motivo dell'"abisso", quando sostiene che "l'uomo è una fune sospesa tra l'animale e il superuomo, una fune sopra l'abisso.
Un pericoloso passare dall'altra parte, un pericoloso esser per via, un pericoloso guardarsi indietro, un pericoloso inorridirsi e arrestarsi. Quel che è grande nell'uomo è che egli è un ponte, non una meta: quel che si può amare nell'uomo è che egli è transizione e tramonto, io amo coloro che sanno vivere se non per tramontare, perché sono coloro che passano dall'altra parte". Questa tematica, già espressa da Previati nei disegni visionari del 18881890 che rappresentano La discesa nel Maelstróm ispirata ai racconti di Poe, è interpretata nello straordinario gruppo scultoreo di Canonica intitolato appunto L'abisso. Raffigura l'abbraccio fatale di due amanti che si ritraggono atterriti di fronte alla voragine che sta per inghiottirli e che sembra coincidere con l'inconscio, l'universo sconosciuto che la nuova scienza della psicoanalisi di Freud e Jung aveva cominciato a sondare, scoprendo quanto fosse decisiva la sua influenza sul comportamento umano.
Di quest'opera si conoscono due esemplari, il primo presentato alla Biennale di Venezia del 1907 e questa nuova versione del 1909 esposta alla mostra individuale che la stessa Biennale dedicava allo scultore allora già consacrato soprattutto per le sue qualità di ritrattista alla moda e molto richiesto a livello ufficiale per importanti commissioni monumentali. L'abisso rappresenta, sia per il soggetto che per lo stile improntato a un dinamismo liberty, un unicum nel repertorio di impronta più tradizionale e accademica di Canonica. L'opera appare come l'emblema dei tormenti della Belle Époque, presto destinata ad affondare — prima che la Grande guerra ne segnasse la fine — con il Titanic, inabissatosi tra i ghiacci nel 1912.
I due amanti di marmo sembrano addirittura, nella loro posa di enorme suggestione, anticipare quella dei due protagonisti del popolare film di James Cameron del 1997. Il dipinto Le frodi venne presentato da Galileo Chini a un'importante mostra da lui organizzata in collaborazione con Giovanni Papini e Ludovico Tommasi a Palazzo Corsini nel 1904. Si tratta di un'opera innovativa con la quale il suo autore si confrontava con il simbolismo nordico di Beicklin, che era morto nel 1901 a San Domenico in Fiesole dove risiedeva da molto tempo, e soprattutto di Von Stuck.
Le "tre donne malefiche che cercano di nascondere le facce turpi negli ampi mantelli, allontanandosi da un uomo che le sfida minaccioso col guardo sicuro" colpirono molto la critica per la potente sintesi del loro modellato dinamico e per i colori accesi, quasi fosforescenti. Come le terribili Parche, il trio che sorveglia il destino dell'uomo, rappresentano l'inganno che minaccia a ogni passo la vita. La prima figura sulla destra appare sfuggente,
la seconda al centro in preda all'ira e la terza falsamente sottomessa, atteggiamenti che vengono sottolineati dal valore simbolico dei colori: il rosso della collera e il verde dell'invidia. Nel personaggio che sembra entrare da sinistra nel quadro si può riconoscere l'autoritratto dell'artista, che con uno sguardo volitivo sfida le tre divinità malefiche.
Come sostiene Fabio Benzi, sarebbe dunque una sorta di dipinto manifesto con cui il pittore si presenta alla "ricerca della verità assoluta", scacciando le "frodi, cioè gli stratagemmi e i compromessi per ottenere una fama ufficiale, orgoglioso unicamente della sua altezza morale e delle sue qualità artistiche". Ma un'altra possibilità rimanda alla sfida dell'artista che sonda l'abisso dell'inconscio dove si nascondono, come nei mantelli inquietanti delle frodi, le pulsioni più inconfessabili dell'animo umano, quali affioravano nell'esperienza travagliata di quegli anni. La figura della Pleurease, o La Madeleine, di Andreotti si avvolge nella sua tunica di bronzo come le frodi di Chini nei loro mantelli fosforescenti e sembra come loro volersi ammantare di mistero, qui l'abisso del dolore. La figura assume dunque un valore emblematico, pur ispirata — sembra — a un modello reale che è la grande interprete della danza moderna Isadora Duncan, già ritratta da Rodin e da Bourdelle. Lo scultore, che, come Nomellini e Romanelli, deve averla vista esibirsi a Parigi, la "venerava".
Il monumentale I viandanti, presentato da Carena alla Biennale di Venezia del 1909 dove fu subito acquistato dal Museo di Udine, rappresenta l'esito più ambizioso, agli esordi dell'artista, del suo impegno umanitario che lo portò a rappresentare questo gruppo di contadini, emblematici della triste condizione di quel ceto, incerto tra la rivolta e la rassegnazione; appunto viandanti smarriti, senza destino, nell'abisso della loro condizione senza possibilità di riscatto. Come ricorderà Carena il dipinto fu ammirato da Gorkij.
UNA SOCIETÀ IN RIVOLTA
Fernando Mazzocca
Dopo aDopo aver esposto alla Triennale di Milano del 1891 L'oratore dello sciopero, rappresentazione eroica di quelle manifestazioni che avevano scosso per molti anni tutto il paese e che avranno il loro tragico epilogo nella sanguinosa repressione del 1898 ordinata dal governo al generale Bava Beccaris, Longoni si ripresentò alla successiva edizione di quella esposizione, nel 1894, con un dipinto altrettanto provocatorio sin dal titolo: Riflessioni di un affamato o, in alternativa, per rendere meglio il senso della scena sorpresa in una strada della grande città, Contrasti sociali.
Questo capolavoro si presentava diverso dal precedente, per l'originalità della narrazione e per la raffinatezza della stesura dove il nuovo linguaggio divisionista raggiungeva risultati sorprendenti e funzionali al tema trattato. Si osservino nell'atmosfera come ovattata e sospesa, ma pungente e crudele, della sera invernale il riflesso della neve sul marciapiede, la trasparenza agghiacciante del vetro appannato, l'alone della lampada che illumina l'interno, la scritta tagliata che domina la parte superiore della vetrina che è quella del Caffè Buffi situato sotto l'ottagono della Galleria Vittorio Emanuele.
Nell’Il ragazzo, protagonista dell'opera, era un personaggio reale della malavita milanese, "il ragno", che, come in un romanzo di Paolo Valera, finirà accoltellato. Questo abilissimo ladruncolo, molto noto alle cronache, venne ritratto dal pittore, sempre nel 1894, nel dipinto disperso dal titolo Già ladro o Primo fallo o Arrestato. Mentre i due ricchi sembrano assolutamente indifferenti, per niente infastiditi dallo sguardo dolente fisso sul loro benessere. "Che porci! Mandano indietro la carne perché hanno la pancia troppo piena [...]".
Sono queste, insieme ad altre, le eloquenti espressioni che vengono attribuite all'affamato nel dialogo abbinato alla fotoincisione che riprodusse il quadro nel numero unico di "Lotta di classe", foglio del Partito Socialista pubblicato e diffuso proprio in occasione del 1° maggio 1894. Il fatto procurò a Longoni la denuncia per "istigazione all'odio di classe" e la sua schedatura come pittore degli anarchici, sottoposto da quel momento sino alla fine del secolo a controlli di polizia.
L'opera, acquistata da un industriale illuminato amico e mecenate dell'artista, impressionò i recensori che individuarono
nel giovane "affamato" il "futuro ribelle", perché "nel pensiero alterato dal digiuno si formano i primi pensieri che un giorno lo faranno tuonare contro le ingiustizie sociali". Egli "pensa che la società non è precisamente giusta, che concede troppo ai pochi per negare ai molti, e nel suo piccolo cervello nasce l'idea della ribellione". Gli scioperi, le rivolte toccarono tanto il mondo delle città, quanto il più esteso universo contadino, afflitti entrambi da una pesante tassazione e da una povertà sempre più drammatica che non sembrava lasciare altre vie di uscita se non la ribellione o l'emigrazione, aumentate l'una e l'altra in un incremento esponenziale sempre più crudele.
Le Riflessioni sulla violenza di Sorel, come il suo libro sul sindacalismo, ebbero una vasta diffusione in Italia. I due dipinti di Carena e di un altro torinese, Buratti, entrambi suggestionati dal socialismo umanitario di Giovanni Cena, affrontavano nello stesso anno, il 1904, proprio il tragico tema della rivolta. I ribelli del secondo ricordano l'impostazione del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, con i protagonisti che avanzano verso lo spettatore, ma all'aria fiera degli eroi del pittore di Volpedo sembra subentrare un'espressione più dolente, come se rispetto alle prospettive di riscatto che rendevano così speciale quel dipinto manifesto fosse subentrata ormai la rassegnazione.
Assume allora un significato emblematico e come inquietante la enorme falce che domina, come una luna oscurata da un'eclisse, il primo piano. Sembra la falce della morte, quella fine violenta che spesso era il destino senza scampo di quei rivoltosi che dalla Sicilia dei Fasci alla Lunigiana segnarono con il loro sangue la penisola. Sono significativi nelle pose delle figure i rimandi al celebre Seminatore di Constantin Meunier o a Piazza caricamento, il dipinto dedicato da Nomellini alle proteste dei camalli a Genova presentato alla Triennale di Brera del 1891. Se in Buratti emerge la dolente fierezza con cui si percorre una via senza scampo, ma necessaria, ne La rivolta di Carena domina solo il dolore, una sofferenza disperata senza alcun, se pur minimo, barlume di riscatto. Il dipinto venne eseguito per il concorso del Pensionato Artistico Nazionale, un periodo di formazione a spese
dello Stato da svolgersi a Roma, che prevedeva in quell'anno di misurarsi con questo tema di così scottante attualità.
Troviamo un forte coinvolgimento emotivo del giovane pittore impegnato con il destino votato al fallimento, come avveniva quasi sempre per queste manifestazioni, dei suoi eroi dolenti, il giovinetto con la fronte bendata, l'uomo con i pugni chiusi, la donna che si affaccia all'estremità del dipinto con il bambino in braccio. Questa dimensione patetica, sottolineata dai gesti e dalle espressioni come la bocca aperta in un gemito del bracciante di destra, viene riscattata e come nobilitata dai riferimenti alla pittura seicentesca che proietta questa straziante immagine in una dimensione senza tempo. Anche se la presenza, come un fondale di sangue, della bandiera rossa riporta al terribile presente, nella condivisione o almeno nella pietà per questo che ci appare più come un povero manipolo di diseredati che un pericoloso corteo di sovversivi.
Il funerale di un eroe del lavoro è un bozzetto in bronzo del grande monumento sepolcrale per Angelo Giorello realizzato in marmo per il cimitero di Montevideo, dove venne inaugurato nel 1913. In questo tema, insolito per la scultura e soprattutto per quella funeraria di cui Bistolfi fu un grande interprete, ritroviamo l'eco, per quanto riguarda la scelta del soggetto, del grande altorilievo in bronzo rappresentante Le vittime del lavoro eseguito tra il 1882 e il 1883 da Vincenzo Vela per rendere omaggio agli eroi morti nei lavori del traforo ferroviario del San Gottardo. Con uno stile molto diverso, che ricorda Rodin, Bistolfi ha saputo rappresentare in una dimensione insieme epica e visionaria, come ha sottolineato nel 1908 Mario Labò, "un drappello di lavoratori che porta alla tomba un compagno. Seguendo un'usanza americana la salma non è chiusa nel feretro: ma vi è distesa sopra e si profila dinnanzi al cielo, sopra quel tumulto di genti, così solenne e così grande, che il funerale sembra converso in un'apoteosi. Gli uomini, le donne, i fanciulli, tutti i gregari dell'umanità, si affollano senz'ordine insieme, s'aiutano a gara, e sopra quell'aggrovigliarsi di corpi e di membra la bara immensa sembra ondeggiare sollevata da una forza ideale".
ALBE TRAGICHE
Fernando Mazzocca
I sognI sogni, si sa, muoiono all'alba. Quante tragiche albe devono aver scandito la vita dei lavoratori che consumavano giorno dopo giorno, in condizioni sempre più difficili, il loro destino senza riscatto. Le uniche possibilità furono la ribellione, nelle infinite proteste e scioperi che agitarono e insanguinarono il paese, e l'emigrazione, diventata oggetto come la prima di un'epica dolorosa alimentata dalla letteratura e dall'arte. A essa ha eretto una sorta di monumento Angelo Tommasi nel suo grandioso dipinto Gli emigranti (1896) della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma.
Ma più diffusa dovette alla fine essere la rassegnazione che domina le albe livide oggetto dei quadri qui esposti. Con il titolo Dicembre L'alba dell'operaio venne presentato alla Triennale di Brera del 1897 un grande quadro realizzato con la nuova tecnica divisionista, dove la luce fa fatica a penetrare e a rivelare le figure avvolte nella nebbia. E stato considerato una vera icona della pittura sociale e senz'altro l'opera più impegnativa del milanese Sottocornola che aveva aderito al socialismo, divenendo protagonista negli ambienti progressisti della città.
Lettore del "Secolo", il quotidiano radicale, egli fu impegnato sul doppio fronte della battaglia politica e di una sperimentazione artistica dove si appassionò nella rappresentazione dei lavoratori, visti come gli eroi umiliati dei tempi moderni, e della loro difficile esistenza, con un particolare riguardo anche alla condizione delle donne. Questo dipinto rappresenta dunque il culmine di un percorso iniziato con Il muratore, presentato alla Triennale del 1891 (è esposto in questa sede delle Gallerie d'Italia), cui seguirono i dispersi L'uscita delle operaie dallo stabilimento Pirelli del 18911897 e Donne in periferia sempre del 1897. Ancora nella periferia desolata viene ambientata l'uscita per il lavoro quando il sole che sorge non riesce ancora a dissolvere le tenebre. Rischiarata dalla luce dei fanali che fendono la nebbia e identificano le figure dolenti, appare una folla muta, e quasi invisibile, che si avvicenda con movimenti affrettati. Il solco dei binari, che fende la tela in primo piano, guida il nostro sguardo in questo spazio tragico dove i passanti, resi in maniera sommaria, appaiono come dei fantasmi evocati dalla luce
che si riflette sul selciato.
Quest'opera, complessa e innovativa nel panorama artistico italiano di quegli anni, è costata al suo autore lunghi studi come documentano i molti disegni preliminari. Ne fu colpito un altro protagonista della pittura impegnata come Morbelli, che in una lettera citò il "grande" quadro che gli sembrava come "incompiuto, ma molto forte", aggiungendo: "il divisionismo lo studia e lo sviscera, rappresenta una strada alla prima alba, con fanali accesi, evvi aria e luminosità soddisfacente". Questo inquietante capolavoro era come il presagio di quanto sarebbe successo l'anno dopo nella primavera del 1898 quando, in una Milano che sembrava "avesse sospeso la vita", che "boccheggiava, tutte le finestre spalancate e una atmosfera esasperata di luci e di attesa", come annotò Marinetti, una città messa in stato d'assedio dall'esercito del generale Bava Beccaris, venne repressa nel sangue la sollevazione operaia che, organizzata in cortei e in barricate, fece pensare a una riedizione delle gloriose Cinque Giornate del 1848. Secondo il lucido sguardo di denuncia del fondatore e direttore del "Corriere della Sera" Luigi Torelli Viollier la "paura" aveva "gettato sulla strada tutti gli operai di Milano; la paura fece ammazzare un centinaio di persone, e ferirne più o meno gravemente parecchie centinaia; la paura ha fatto credere in tutta Italia che la nostra città fosse a due dita dalla catastrofe; la paura ha fatto sì che siamo fuori della legge, e che sia stata sospesa ogni libertà, ogni guarentigia costituzionale".
Tutto era partito dall'innocente corteo di un centinaio di ragazze della Pirelli, dove allora lavoravano circa 1400 donne nella maggior parte provenienti dalle campagne, quelle donne che Sottocornola aveva fatto protagoniste dei suoi quadri impegnati e della sua indimenticabile Alba. In un linguaggio diverso, che non è ancora quello del divisionismo destinato a diventare una koinè diffusa in tutta la penisola, ma con un naturalismo dai forti accenti simbolisti, un altro pittore impegnato nella rappresentazione delle contraddizioni della società contemporanea, Luigi Selvatico, figlio di Riccardo il grande sindaco poeta che aveva fondato la Biennale di Venezia, ci ha lasciato due albe straordinarie ambientate nel
luogo simbolo, la ferrovia, di quella modernità, di quel progresso tecnologico che non era purtroppo riuscito ad annullare le diseguaglianze sociali. Partenza mattutina, esposta alla III Biennale del 1899, rappresenta l'atrio della vecchia stazione di Venezia, che sarà demolita negli anni trenta del secolo successivo, appena rischiarata da una doppia fonte di luce: quella soffusa dell'alba che entra dalle grandi finestre e quella, altrettanto fredda, delle lampade a gas che appena accese brillano dietro i vetri degli uffici.
In questo spazio angoscioso e silenzioso, che può ricordare quello triste di una chiesa spoglia, si stagliano due presenze mute e drammatiche: quella al centro di un facchino, seduto su un parapetto in attesa di iniziare il proprio duro lavoro, e quella a sinistra in primo piano di una donna vestita di scuro che, accovacciata su una valigia, nasconde portando al volto un fazzoletto bianco la propria disperazione, nell'ansiosa attesa del primo treno. Quel treno che poi sarà rappresentato dallo stesso Selvatico in un altro dipinto dal forte impatto emotivo, Macchine sotto pressione, esposto alla V Biennale nel 1903. Negli stessi toni scuri di Partenza mattutina e con il medesimo taglio ravvicinato, due locomotive sono rappresentate nell'alba livida, sullo sfondo di un cielo grigio, mentre due ferrovieri, visti di spalle e tanto sottodimensionati rispetto alla mole delle macchine, si muovono manovrando gli scambi lungo le rotaie. Non si tratta della celebrazione della potenza e del dinamismo della macchina, che sarà tra pochi anni oggetto della poetica futurista, ma di una visione cupa, quasi minacciosa, che ricorda l'atmosfera di una delle più belle delle Odi barbare di Carducci, cui sarà conferito il Nobel nel 1906, Alla stazione in una mattina d'autunno (1893) dove il treno appare come il "mostro" che "conscio di sua metallica / anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei / occhi sbarra; immane pe 'l buio /gitta il fischio che sfida lo spazio", l'"empio mostro" che con "traino orribile / sbattendo l'ale gli amori miei portasi".
Pochi altri hanno saputo rendere, come quello che fu anche il vate di un'Italia che continuava a mascherare il malessere sotto la retorica, quella disperazione ormai cosmica e senza speranza: "io credo che solo, che eterno, / che per tutto nel mondo è novembre".
ALBE TRAGICHE
Francesco Leone
L'esaltazione estetica del conflitto diede vita all'interno del movimento futurista a uno straordinario coinvolgimento creativo, in cui si dispiegò ai più alti livelli la portata rivoluzionaria delle due istanze cardine dell'arte futurista: quella del dinamismo e, ancor più, quella della simultaneità ambientale, temporale, emotiva, psicologica e sensoriale. Ambedue, assieme al tema altrettanto centrale della "quarta dimensione", erano volte a scardinare quello che il raffinato occhio critico di Soffici definiva, in La pittura futurista pubblicato su "Lacerba" il 15 novembre del 1913, "il pregiudizio della verosimiglianza" secondo cui bisognava "rendere nella loro naturale apparenza le forme della realtà". In altre parole — è sempre Soffici a scrivere in La pittura futurista, dall'interno di "Lacerba" futurista, in un momento alto e complesso di confronto e di elaborazione dell'estetica del movimento e alla vigilia del coinvolgimento antineutrale — il pittore futurista "vede nella realtà un tessuto vivente di forme, di colori e di linee. [...] In quanto a quello che vuol far vedere o, per meglio dire, sentire a chi guarda la sua opera, non è altro che il rapporto emotivo, di tali elementi coordinati in una composizione artistica, che è quanto dire in un'unità plastica vitale e per sé stante". Degli esiti artistici antineutrali di questo sentire universale e simultaneo i dipinti interventisti di Balla risalenti al 1915 sono il risultato più alto, insieme ai quadri di Severini dedicati ai congegni bellici compiuti tra la fine del 1914 e i11915. Le Dimostrazioni patriottiche (o Manifestazioni interventiste) di Balla testimoniano il forte coinvolgimento interventista che l'artista condivise con tutti gli esponenti nel movimento futurista, Marinetti in testa. Balla ne aveva già dato prova tangibile 1'11 settembre del 1914 aggiungendo l'aggettivo "antineutrale" alla versione italiana del Vétement masculin futuriste, il manifesto con cui l'artista aveva concretamente aperto all'imporsi del concetto futurista di "arte totale" un anno prima della pubblicazione del manifesto Ricostruzione futurista dell'universo. Ispirati alle manifestazioni che si succedettero a Roma tra lo scoppio della guerra (28 luglio 1914) e l'ingresso dell'Italia nel conflitto (24 maggio 1915), i dipinti interventisti di Balla si collocano, dopo i cicli delle compenetrazioni iridescenti e delle velocità astratte di poco antecedenti dedicati allo studio della luce e delle linee dinamiche, tra le prime formulazioni europee di una visione pittorica non figurativa e inaugurano un corso radicalmente nuovo per le indagini futuriste, affidato non più all'analisi scompositiva ma alla sintesi attrattiva. Qui Balla supera l'accezione plastica del dinamismo di Boccioni per svolgerlo appunto in termini di ritmo e di astrazione, senza più alcun raffronto con il mondo naturale. Gli equivalenti analogici non figurativi sono dati dai volumi sintetici generati dall'ondeggiare delle bandiere italiane o — in chiave di simultaneità e di sincretismo — dagli stati d'animo, "dall'espressionismo architettonico delle masse" manifestanti e dai "volumi di voci", come scriverà Bragaglia nel 1919 (in "Cronache d'attualità", 5 febbraio). Fu dopo aver osservato queste opere che Io stesso Boccioni, agli inizi del 1916, nell'abbozzo di un articolo monografico scritto per "Gli Avvenimenti" ma rimasto inedito, ammise che Balla "in pochi mesi subisce una evoluzione rapidissima e arriva alle ultime opere ispirate alle violente dimostrazioni antineutrali. Siamo giunti ad un punto in cui è difficile che altro si trovi oggi in Europa" (1.1. Boccioni, Altri inediti e apparati critici, a cura di Z. Birolli, Milano 1972, pp. 4648: p. 48). I dipinti interventisti furono presentati a Roma alla Sala d'Arte Angelelli di corso Umberto il 15 dicembre del 1915 alla personale Fu Balla e Futurista, di cui in mostra è esposto il manifesto parolibero dipinto dallo stesso Balla, che intanto stava sperimentando anche l'illustrazione di guerra, come attesta, sempre in mostra, il bozzetto per una copertina del 1916 per la rivista "Gli Avvenimenti" (Cannonate + stato d'animo). Fu lo stesso Balla, nel pieghevole che accompagnava la mostra di Angelelli, a definire il "nuovo stile futurista" di questi suoi dipinti parlando di "forme sintetiche astratte soggettive dinamiche". I volumi sinuosi privi di figurazione di cui i dipinti si compongono (non più linee "andamentali" o forme geometriche bidimensionali come nei precedenti cicli delle velocità astratte e delle compenetrazioni iridescenti), che restituiscono per via di sintesi e di equivalenti astratti analogici gli stati d'animo, gli elementi dinamici del volteggiare delle bandiere o dell'incedere delle masse, gli equivalenti rumoristici, sono ulteriormente amplificati dall'uso sperimentale di colori compatti e smaltati di natura industriale. Di Forme Grido Viva l'Italia, ispirato alla manifestazione di piazza del Quirinale del 21 di maggio durante la quale il re gridò "Viva l'Italia", si espone, oltre alla tela della GNAM di Roma, anche una seconda versione di più ridotte dimensioni con un impianto cromatico lievemente variato. Mentre è una novità l'inedita Dimostrazione interventista con al centro il nodo sabaudo recentemente riscoperta al verso di una tela ridipinta nel 1925 (studiata da Bersi, Crispolti, Gigli; della composizione sono note due ulteriori versioni diverse per dimensioni e tecnica). Oltre ai colori della bandiera italiana, e ad altre sintesi astratte cromatiche che esemplificano di volta in volta le positive forze interventiste o, viceversa, quelle negative dei neutralisti e dei disfattisti, che sempre ricorrono nei dipinti, si possono rintracciare nelle singole opere degli ulteriori elementi di patriottismo, come il nodo sabaudo nella Dimostrazione interventista esposto in mostra.
I TRASLATI FIGURATIVI DELL'INNO ALLA GUERRA DEI FUTURISTI: MARINETTI, SEVERINI, CARRA, ROSAI
Francesco Leone
"Così "Così il Futurismo dinamico e aggressivo [.. .] darà anche le vere espressioni pittoriche, poetiche, scultoree e rumoriste [della guerra]" (Lettera di Marinetti a Severini del 20 novembre 1914).
Fu il demiurgo Marinetti a indirizzare Severini su uno statuto di più concreta figurazione nell'incitarlo alla rappresentazione senza analogie astratte di ogni sorta di congegno meccanico bellico in una lettera che raggiunse il pittore il 20 novembre del 1914 in una Parigi già persa negli orrori della guerra e dove aveva appena fatto rientro (in Archivi del Futurismo, a cura di M. Drudi Gambillo, T. Fiori, 2 voll., Roma 19581962: I, 1958, pp. 349350).
Il risultato fu una serie impressionante di dipinti compiuti tra dicembre 1914 e 1915 ed esposti in una personale alla Galerie Boutet de Monvel di Parigi nel gennaio del 1916 dal titolo I Exposition futuriste d'art plastique de la guerre et d'autres oeuvres anterieurs, di cui la tela presente in mostra, Train de Blessés dello Stedelijk Museum di Amsterdam, ideata e probabilmente anche compiuta durante un soggiorno a Igny dell'estate del 1915, è uno dei risultati più belli ed emblematici, con i suoi squilli cromatici dati dal tricolore francese e dalla bandiera della Croce Rossa e i richiami a Robert Delaunay.
Nell'esecuzione di questi dipinti Severini, anche suggestionato dal suocero Paul Fort, fervente attivista, si era sempre più affidato a moduli di scomposizione geometrica di marca cubista per fissare sulla tela quei brandelli di realtà attinenti alle diverse sfere sensoriali, parole e numeri compresi, che, filtrati dalla mente, avevano contribuito a definire con sempre maggiore evidenza, e più netti e vividi impianti cromatici, la sua "sintesi plastica dell'idea: guerra". Si trattava, dunque, di un complesso procedimento mentale in cui il dato reale immesso nel dipinto — filtrato dall'esperienza sensoriale, scomposto dalla psiche e ricomposto sulla tela in un insieme — doveva contribuire al formarsi non di una rappresentazione di un fatto contingente legato alle vicende belliche, ma dell'idea stessa della guerra. Due brani dei suoi scritti delineano con efficacia questo percorso creativo.
Il primo, relativo al soggiorno a Igny nell'estate del 1915 con la moglie Jeanne, chiarisce il processo di slittamento del brano di realtà da elemento concreto a simbolico elemento "ideista": "Accanto alla nostra casupola passavano giorno e notte treni carichi di materiale bellico, o di soldati, o di feriti; perciò feci diversi quadri, cosiddetti di guerra; ma, sebbene in origine fossero stati ispirati da quelle cose reali che mi passavano di fronte agli occhi, divennero poi sempre più sintetici e simbolici, fino ad essere, nei quadri che feci successivamente nel prossimo inverno, dei veri 'simboli di guerra'" (G. Severini, Tutta la vita di un pittore, con prefazione di F. Menna, Milano 1983, p. 175 ).
Mentre il secondo, pronunciato nel corso della conferenza Les Arts Plastiques d'avantguarde et la Science moderne che Severini tenne in apertura della personale del gennaio 1916, indica con nitidezza lo scopo ultimo della ricerca del pittore sulle tematiche di guerra: "Par example, j'ai tàché d'exprimer l'idée: Guerre par un ensemble plastique composé de ces réalités: Canon, Usine, Drapeau, Ordre de mobilitasion, Aéréoplane, Ancre. Selon notre conception de réalisme idéiste, aucune déscription plus ou moins naturaliste de champs de bataille ou de carnage ne pourra nous donner la synthèse de l'idée: guerre, mieux que ce objets, qui en sont le symbole vivant" (in D. Fonti, Gino Severini, catalogo ragionato, Milano 1988, n. 232, p. 194).
La rivoluzione marinettiana delle "parole in libertà" e dell'"immaginazione senza fili", mutuata da Picasso, incentrata sulla contaminazione dei generi espressivi e sulla sovrapposizione delle sfere sensoriali (se ne ha un'eco anche nella Cromografia di guerra scoppio di una granata di Cagnaccio di San Pietro del 19151917), produsse esiti mirabili quando fu applicata alle istanze interventiste e alla loro rappresentazione. Un esempio ne è la tavola parolibera di Marinetti, esposta in mostra, Parole in libertà Bombardamento sola igiene del mondo del 1915 (che fa eco al manifesto Guerra sola igiene del mondo pubblicato da Marinetti nello stesso anno), in cui, con la tecnica dell'inchiostro e del collage su carta, le sagome ritagliate, rinforzate di nero a simulare delle scie, evocano un fragoroso bombardamento (un vero e proprio paesaggio
sonoro) su una sorta di colonna infame — un altro ritaglio di giornale — in cui sono elencate tutte le ragioni mediche per le quali si poteva essere dispensati dalla chiamata alla guerra. Tavole parolibere dedicate alla guerra furono realizzate tra 1916 e 1917 anche da Depero, dai fratelli Cangiullo e da altri satelliti dell'universo futurista. Fu seguendo le suggestioni marinettiane del celebre compimento parolibero Zang Tumb-Tumb che agli inizi del 1914 Rosai compì l'omonimo dipinto, qui esposto, Zang-tumb-tumb + bottiglia + bicchiere, uno dei primi e più importanti della sua breve e personale parabola futurista, in cui già compaiono i tipici elementi formali dei volumi compatti ma seghettati in chiave espressionista. Del capolavoro di Marinetti, pubblicato per le Edizioni di "Poesia" nella primavera 1914, erano apparsi numerosi frammenti su "Lacerba" nel corso del 1913 e lo stesso Marinetti ne aveva declamato brani in molte parti d'Europa e addirittura in Russia nel corso del 1913.
Anche Carrà — del quale su "Lacerba" del 1° agosto 1914 era stato pubblicato il dipinto parolibero Festa patriottica (titolo poi mutato nel secondo dopoguerra in Manifestazione interventista) —elaborò in questi termini di dirompente libertà espressiva la serie dei dodici disegni e collage "guerreschi", compiuti tra novembre-dicembre del 1914 e febbraio 1915, riprodotti in apertura del libro Guerra-pittura, uscito nel marzo del 1915 per le Edizioni Futuriste di "Poesia". Queste opere — delle quali in mostra è esposta l'irredentista Guerra navale nell'Adriatico del 1914 — sono il frutto pittorico degli entusiasmi antineutrali di Carrà, declinati nella sua eretica accezione plastica delle istanze futuriste, prossima al cubismo e già pronta a imboccare altre vie di ritorno alla forma come di lì a poco sarebbe accaduto. Molto vicino al più bello e articolato dei collage riprodotti in Guerra-pittura (Inseguimento Cavallo e cavaliere del 1915, pubblicato su doppia pagina), è, sempre di Carrà e sempre del 1915, Cavallo e cavaliere: il dipinto, oltre a evocare la celebre Carica dei lancieri di Boccioni, introduce in mostra la figura del cavallo.
Un'immagine tra le più eroiche tra quelle di guerra, cui anche Hollywood ha reso un poderoso omaggio con War Horse di Steven Spielberg nel 2011.
TUTTO VACILLA
Francesco Leone
"Venne il fatale 1914; era estate, faceva caldo afoso. Un bel gior"Venne il fatale 1914; era estate, faceva caldo afoso. Un bel giorno tutto cominciò a confondersi e vacillare" (G. de Chirico, Memorie della mia vita, Milano 1962, p. 75).
Sulla vecchia Europa si addensavano presagi di rivolgimenti epocali ben prima che il conflitto mondiale si profilasse. Lo slancio positivo della Belle Epoque aveva esaurito da tempo il suo afflato o stava svelando un'altra e più inquieta anima quando la tragica realtà della Grande guerra si stagliò all'orizzonte per spazzarne via ogni ultimo brandello.
Sul versante italiano due eventi, l'uno con accenti apocalittici, l'altro concretamente, avevano in qualche modo lasciato presagire che la precaria geometria europea e la civiltà borghese sarebbero state presto risucchiate nella tempesta.
Il terrificante terremoto che rase al suolo Messina e Reggio Calabria il 28 dicembre 1908 (quasi centomila morti), rievocato in mostra dal gruppo di sanguigne di gusto secessionista del Delenda Messana compiute nel 1909 in una Palermo internazionale dal pittore e scultore di origine belga e di formazione viennese Julius van Biesbroeck per illustrare i versi composti da Achille Leto in ricordo di quella sciagura, fu il primo segno premonitore del crollo imminente della civiltà europea con tutte le velleitarie ambizioni di potenza dell'uomo borghese fiducioso nella scienza e nell'industria.
Anche Max Beckmann, a testimonianza della vastissima risonanza di quella tragedia, dipinse nel 1909 la grande tela Scene dalla distruzione di Messina (Saint Louis Art Museum). Mentre altre inquietudini da fine del mondo furono alimentate dal passaggio della cometa di Halley nel maggio del 1910.
Il secondo evento, la guerra italo-turca del 1911-1912 combattuta in Libia, i cui caduti l'emiliano Silverio Montaguti commemorava nella scultura ancora di stampo realista, ma dalle sinuosità liberty, Per la civiltà e per la patria del 1912, aveva poi definitivamente e concretamente chiarito
ai più mentre intanto, il 14 aprile del 1912, insieme al Titanic affondavano le rassicuranti certezze della civiltà tecnologica che lo scoppio di un conflitto generalizzato non era ormai lontano, sebbene poi scaturito da un evento apparentemente imponderabile come l'attentato all'arciduca Francesco Ferdinando. In entrambe le circostanze, nel 1908-1909 con le truppe italiane impegnate nelle operazioni di soccorso della popolazione di Messina e Reggio e nel 1911-1912 con esercito e marina ingaggiati a combattere in Libia, il capo di stato maggiore austroungarico generale Conrad von Hòtzendorf, nel clima da Armageddon in cui visse la Vienna di inizi Novecento, ossessionata dallo scenario del finis Austriae, aveva già prospettato all'alto comando tedesco un progetto d'invasione preventiva dell'Italia fiaccata e indebolita, e già intenta a uscire dalla Triplice.
Sulla penisola il valzer delle alleanze in cui si avvitò l'Italia di Salandra e di Giolitti, le spinte nazionaliste, l'odio montante contro lo storico nemico del nostro Risorgimento, gli impulsi insurrezionali interni al paese e le (s)manie tedesche di egemonia alimentavano l'inquietante sensazione che tutto nell'arco di pochi anni sarebbe crollato dinanzi all'inerte politica immobilista degli organi di governo.
Questo presentimento di terremoto globale si avvertì con particolare intensità, pur con esiti diversissimi, anche in campo artistico. Se, da un lato, vi era chi e questi erano i futuristi di Marinetti scorgeva nell'incombente conflitto mondiale delle poderose potenzialità di palingenesi, dall'altro, invece, la cultura ormai un po' navigata del simbolismo decadente vi avvertiva la fine di un'era e di una civiltà: il crollo spirituale della vecchia Europa. Si traducono in questi termini e si spiega così la loro presenza in mostra La luna ritorna in seno alla madre terra del 1903 di Mario De Maria, uno dei protagonisti più significativi del simbolismo italiano, e il monumentale polittico del Sic Transit... dipinto nel 1912, dunque in una data fatidica, dall'ungherese di formazione viennese ma naturalizzato italiano Adolf Hirémy Hirschl.
Trasferitosi definitivamente a Roma nel
1898 alla ricerca ormai fuori moda del mito e della classicità, legatosi al clima estetizzante del circolo dannunziano e alla prestigiosa colonia di artisti tedeschi presenti a Roma (Greiner, Roeder, Lipinsky, fuggiti chi dall'asfittico clima accademico di Lipsia, chi da quello paludato della Vienna asburgica di Makart), Hirémy Hirschl aveva avuto modo di elaborare da un osservatorio privilegiato (la capitale del Regno) una straordinaria epitome di questo scarto di civiltà (prologo per alcuni, epilogo per altri) che si stava configurando, tra richiami alla Secessione, echi neopompeiani ancora di stampo realista e traslati simbolisti.
Attratto in quel momento, come Sartorio, dagli affascinanti snodi della storia antica, ricchi di seduzione, di ispirazione e di rimandi alla situazione contemporanea, Hirémy Hirschl simboleggiava in questa imponente macchina pittorica prima di partire volontario nel 1915 per combattere dalla parte della sua Austria il passaggio dall'era al tramonto della Roma antica a quella cristiana, ma i nugoli di fantasmi che dominano l'enorme polittico, vagolando tra le rovine, minacciando vendette e disseminando distruzioni e pestilenza, dovevano richiamare, o esorcizzare, i venti di crisi serpeggianti nel mondo contemporaneo. Ad accrescere questo clima di instabilità, in cui tutto vacilla e si confonde deflagrando nella guerra come scrive de Chirico, vi erano poi in Italia, come in buona parte d'Europa, i forti contrasti di natura sociale, di matrice operaia, anarchica, socialista, che stavano spaccando il paese, crescenti nel primo decennio del secolo ma di cui già i moti di Milano del 1898, repressi nel sangue dal generale Bava Beccaris, avevano dato una triste e tangibile prova. Di questa temperie è frutto il ciclo de L'uomo e la Terra di Plinio Nomellini, affidato a uno stupefacente divisionismo in movimento, alla Previati, sintetico e astraente, dai suggestivi titoli "sociali" che richiamano le fiumane di Pellizza da Volpedo, con il quale il pittore livornese aveva condiviso impegno sociale e frequentazioni anarchiche durante la sua permanenza a Genova nell'ultimo decennio dell'Ottocento.
PITTORI SOLDATO DAL FRONTE: IL CICLODOCUMENTO DI SARTORIO E UNA NOTA SU POGLIAGHI
Francesco Leone
"[...] per avere una storia tutti i popoli hanno avuto bisogno di entrare nell"[...] per avere una storia tutti i popoli hanno avuto bisogno di entrare nell'ambito del nostro pensiero, e, dopo l'ultimo cataclisma, la guerra, se vogliono vivere ancora, vi devono rientrare"
(G.A. Sartorio, Flores et Humus. Conversazioni d'Arte, Città di Castello 1922).
Arruolatosi nel gruppo delle Guardie Volontarie a Cavallo nel 1915 nonostante i cinquantacinque anni d'età, imprigionato per due anni a Mauthausen dagli austriaci, liberato grazie all'eccezionale intercessione di papa Benedetto XV nel luglio del 1917, tornato immediatamente sulla linea del Piave violando gli accordi internazionali sui prigionieri rilasciati, senza stipendio, senza sussidi, senza salvacondotti per viaggiare, nell'ultimo anno di guerra sul fronte orientale Sartorio dipinse uno straordinario ciclo di 107 dipinti (ma il numero potrebbe ancora crescere di alcune unità) tra olii più finiti (più di sessanta quelli documentati; su carta, su cartone, su tela incollata su cartone) e studi più abbozzati a tempera, pastello, carboncino, che documentano gli eventi bellici dall'inferno della rotta di Caporetto all'empireo di Vittorio Veneto.
Quarantacinque furono esposti nel 1918 in Campidoglio a Roma alla Mostra degli studi e dei quadri eseguiti da G.A. Sartorio alla fronte italiana.
Nel 1924 sessantuno di questi dipinti (tutti a olio) furono imbarcati da Sartorio sulla regia nave Italia, un residuato bellico riqualificato con lo scopo di recarsi in tournée in America Latina ricolma di prodotti dell'industria, delle manifatture, dell'artigianale e dell'arte made m Italy. Tra le seicento opere d'arte prese a bordo (cinquecento dipinti, cento sculture) vi erano anche cento dipinti di Sartorio (tra cui i sessantuno di guerra) che l'artista, nominato segretario governativo per le Belle Arti dell'impresa, intendeva esporre e vendere in più mostre personali da realizzarsi sia in mare che a terra.
Cinquantotto dei sessantuno dipinti dì guerra furono acquistati nella sosta a San Paolo del Brasile da un gruppo di oriundi Veneti che ne fece dono alla Casa degli Italiani della città "ad imperitura dimostrazione del genio della nostra razza". Qui rimasero nella più completa oscurità fino al 1999, quando il Circolo Italiano ne decise la vendita e lo smembramento per problemi finanziari.
Con l'aiuto delle istituzioni e delle autorità consolari italiani, nel 2000 i dipinti furono acquistati in blocco, trasportati in Italia, restaurati e sistemati negli uffici romani del Ministero degli Affari Esten. Invece i dipinti non imbarcati per il Sud America nel 1924 una quarantina tra studi a tempera, pastello o carboncino e qualche olio furono trattenuti da Sartorio nel suo studio. Dopo la sua morte, tranne alcuni pezzi venduti singolarmente dal pittore ancora in vita o dagli eredi, furono ceduti nel 1934 al Museo Civico del Risorgimento di Milano (erano in totale cinque olii e ventitré pastelli).
Stipati al Castello Sforzesco, furono in parte distrutti durante i bombardamenti del secondo conflitto mondiale. Nel secondo dopoguerra i quindici pastelli superstiti furono spostati al Museo di Storia Contemporanea.
L'intera vicenda del ciclo è stata attentamente ricostruita per la prima volta, anche attraverso lo studio di una consistente e inedita documentazione scritta e fotografica proveniente dall'Archivio Eredi Sartorio, da Renato Miracco in occasione della mostra Giulio Aristide Sartorio. Impressioni di guerra (19171918) tenutasi nella Sala della Regina di palazzo Montecitorio nel 2002, in cui fu esposta una parte cospicua del ciclo (una prima, parziale presentazione era stata data nella mostra Sartorio 1924. Crociera della Regia Nave "Italia" nell'America Latina, a cura di B. Mantura, M.P. Maino e B. Osio, Roma 1999).
Insieme a sedici dei Cinquantotto olii del Ministero degli Esteri, sono esposti in mostra i quindici dipinti (studi a tempera, pastello o carboncino) delle Civiche Raccolte Storiche di Milano e due ulteriori olii: La passerella sospesa a Castellacelo (1918, collezione privata) e il Trasporto funebre sull'Adamello (1918) della Fondazione Wolfsoniana di Genova, ancora non riemersi ai tempi della mostra romana del 2002. Un ultimo olio raffigurante lo Scoppio di una rama, qui non esposto, si conserva presso il Museo della Guerra del Vittoriale degli Italiani ed è stato per la prima volta pubblicato nel catalogo della mostra La Grande guerra degli artisti. Propaganda e iconografia bellica in Italia negli anni della prima guerra mondiale tenuta al Museo Marino Marmi di Firenze tra 2005 e 2006.
Come ha attentamente ricostruito Miracco nel 2002, secondo uno spirito di modernità e di grande familiarità con il mezzo fotografico maturato nel cenacolo romano del conte Frimoli con d'Annunzio, Michetti e la Serao, per l'esecuzione di ogni singolo dipinto Sartorio si servì con estrema aderenza, oltre che di studi grafici, di uno o più scatti fotografici "montati" in un'unica visione simultanea. Le fotografie, conservate presso l'Archivio Eredi Sartorio di Roma, ognuna racchiusa in una busta recante il numero romano di riferimento e il titolo del dipinto, furono scattate dallo stesso Sartorio o tratte dal Fondo Ufficiale dei Foto-cine-amatori dell'Esercito Italiano.
Tutti i dipinti (con dettagliate iscrizioni relative al luogo, all'evento raffigurato e alla datazione, e con il numero romano di riferimento alla fotografia) sono innervati da questa dominante ispirazione fotografica, in cui l'elemento prevalente, e anche di grande fascino, è dato proprio dall'aspetto ottico della rappresentazione. Questo, come accadeva nelle opere dei grandi vedutisti prospettici neoclassici, si traduce sul versante pittorico (almeno nello stato di compiutezza dei dipinti a olio) nella distribuzione di luci e atmosfere sempre alte e nitide (paradossalmente anche nei notturni), nella stesura di cromie squillanti e talvolta molto contrastate, in insistite stesure di biacca che simulano alla lettera i chiari delle stampe fotografiche, nell'assenza di ombre scure, in contorni sfocati o talora completamente assenti, com'è nella fotografia. E un diverso principio di realtà quello che Sartorio mette in scena, rinnegando le formule del realismo ottocentesco, aprendo a diversi processi di percezione che rimodulano il concetto stesso di verosimiglianza.
Il risultato, che è poi quello che distanzia ogni dipinto dalla singola fotografia di riferimento, è una resa realistica priva di coinvolgimento (una sorta di iper-realtà), mondata da ogni aspetto drammatico, da ogni partecipazione patetica, emotiva. Sono opere documento di scenari, di situazioni, di operazioni, di battaglie in cui l'orrore della guerra, anche nei suoi aspetti più drammatici o privati (il trasporto della salma; la carne pulsante dei soldati ammucchiati di notte, a riposo durante la ritirata di Caporetto), è trasfigurato, sublimato dall'aspetto scenografico determinato dall'impalcatura fotografica. A essere minutamente documentata non è la guerra degli umili ma la guerra collettiva degli eserciti. Allo stesso empito di realtà, anche qui però proiettata in una sorta di atemporalità grazie all'uso di luci alte, terse, fredde, risponde un piccolo gruppo di dipinti compiuti con dense pennellate a monocromo (insieme a disegni e schizzi conservati al Museo Centrale del Risorgimento di Roma) con i luoghi del fronte orientale delle Dolomiti realizzati da un altro pittore-soldato sui generis, il lombardo Lodovico Pogliaghi, che per la guerra avrebbe disegnato anche cartoline, ricordi, manifesti, distintivi e alcune incisioni apparse su "L'Illustrazione Italiana" (ad esempio un'Allegoria della nostra entrata in guerra il 24 maggio del 1915). Anche lui, come Sartorio, si arruolò nel 1915 presso il Comando Supremo per illustrare i luoghi del fronte, nonostante i quasi sessant'anni d'età (era nato nel 1857) e il fisico esile. Non battaglie, avvenimenti di guerra o congegni meccanici, ma i luoghi silenti dell'impervia linea delle Dolomiti (qui se ne espongono due con i rifugi alpini). A dominare nei dipinti è la resa realistica (che ne è la protagonista assoluta rispetto alla presenza secondaria della vita umana), giocata con esperienza e maestria sulle diverse tonalità di uno stesso colore.
I dipinti, compiuti tra 1915 e 1916, furono esposti quello stesso anno alla mostra italiana di guerra che si tenne a Londra.
SIRONI, FUNI E BUCCI: GLI UOMINI, I CONGEGNI BELLICI E L'ILLUSTRAZIONE DI GUERRA
DALL'OSSERVATORIO FUTURISTA AL CENACOLO DELLA SARFATTI
Francesco Leone
"Dopo venne la guerra e con questa la mia attività si ferma. Però in quei lung"Dopo venne la guerra e con questa la mia attività si ferma. Però in quei lunghi anni di dolore [...] la luce viva di Leonardo ritornò di nuovo a illuminare gli orizzonti della mia sensibilità"
(Achille Funi in M.G. Sarfatti, Achille Funi, serie A, "Pittori", 3, Milano 1925, p. 15).
Scrive Boccioni nel febbraio del 1916 sulla rivista interventista milanese di area futurista "Gli Avvenimenti" (7, 613 febbraio): "Per quanto apparsi su `Gli Avvenimenti', non posso tralasciare di additare all'ammirazione del pubblico i disegni sulla guerra del pittore Sironi. Siamo di fronte ad una manifestazione artistica illustrativa eccezionalmente originale e potente. Ai piagnucolosi glorificatori di tutto ciò che viene dall'estero, tengo a dichiarare che le illustrazioni del pittore italiano Sironi superano per potenza plastica, per interesse drammatico e per spirito ironico, le piu celebri e le più `copiate' illustrazioni di qualsiasi giornale o rivista europea o americana". I primi disegni di guerra realizzati da Sironi sono per le sei illustrazioni, fatte di manichini meccanizzati articolati con semplici figure geometriche, realizzate nel gennaio 1915 per l'articolo i Gesti della guerra di Forlisi, sul secondo numero del mensile "Noi e il Mondo" (del 1° febbraio; cui si aggiunge una sola copertina nel maggio 1916).
Questo gruppo di illustrazioni, assieme alle copertine e alle illustrazioni del 1915 e del 1916 per "Gli Avvenimenti", alle qua li si accosta il bozzetto mai tradotto a stampa del Cadavere austriaco (del 1915) qui esposto, è tra le espressioni più significative del particolare futurismo di Sironi e segna il passaggio degli interessi culturali del pittore da Roma a Milano. In questo momento le indagini di Sironi da un lato risultano vincolate a una ricerca di sintesi volumetrica che lo accomuna almeno negli intenti estetici a Severini, Carrà e Boccioni, mentre dall'altro sviluppano il cubofuturismo russo di Maleviò, Godearova e Larionov, le cui immagini Marinetti aveva portato con sé a Milano dopo una tournée russa del gennaio-febbraio 1914. Ma già in alcune delle illustrazioni del 1916 per "Gli Avvenimenti" Sironi abbandona gli incastri futuristi per sperimentare un segno più deciso e mosso che tende al pittoricismo ma soprattutto a forzature espressioniste e deformazioni di grande efficacia e talvolta di visionarietà, talora di natura caricaturale (la propaganda bellica si servì sempre della caricatura per rendere malvagio e mostruoso il terribile austriaco: ne sono un esempio i disegni di Oppo per "L'Idea Nazionale" e alcune illustrazioni, talune agghiaccianti, della Bisi Fabbri per "Il Popolo d'Italia").
Questa strada viene ulteriormente sperimentata da Sironi, accentuandone i caratteri monumentali e pittorici, dando seguito a una più articolata costruzione formale per volumi e masse, nelle più indipendenti (rispetto al futurismo) copertine e illustrazioni realizzate per tre dei quattro numeri, usciti tra settembre e novembre 1918, del giornale di trincea "Il Montello", interamente realizzato, scritto e illustrato da soldati operanti sul fronte del medio Piave. In alcune di queste come La fine di un pirata del XX secolo in copertina al numero 2 del 1° ottobre, di cui in mostra si espone il bozzetto — la potente vena espressionista equivale a quella con cui Dix tratteggia gli orrori della guerra nei suoi disegni di quegli stessi anni. Mentre la copertina del primo numero (20 settembre 1918), Bombe tricolori su tutte le barbarie, citata da Bontempelli nel racconto La donna dai capelli tinti con l'henné del 1919 e di cui è esposto il notevole bozzetto a tempera, rivisita l'idolatria meccanica del futurismo in moduli che preannunciano le successive ricerche formali verso la "sintetica costruzione plastica" di cui Sironi parlerà nel gennaio del 1920 in Contro tutti i ritorni in pittura. Manifesto futurista, nella Milano della Sarfatti, di Notari e di Bontempelli. Un precoce apprezzamento delle illustrazioni sironiane de "Gli Avvenimenti" (anche quelle di guerra), di finezza critica e presago di future convergenze, era giunto anche da Margherita Sarfatti in occasione della mostra milanese degli alleati dedicata al bianco e nero. La giornalista aveva parlato di "un'arte di sintesi e di semplificazione estrema", di "una stilizzazione dal vero a grandi e robuste masse squadrate d'ombra e di luce, di bianco e nero, che raggiunge talvolta effetti potentissimi" (Il bianco e nero alla mostra degli Alleati, in "Gli Avvenimenti", 17 dicembre 1916).
Oltre alle illustrazioni Sironi creò anche numerosi dipinti legati ai temi di guerra, con particolare attenzione ai congegni meccanici, come documentano due dipinti qui esposti: l'aereoplano del 1915 e Scene di guerra con cannone del 19171918. In essi si coglie ancora una prassi di costruzione formale che si rintraccia in alcune illustrazioni degli inizi del 1916 per "Gli Avvenimenti". Anche se qui, diversamente dalle tavole per la rivista, ancora realizzate con un tratto dagli andamenti sinuosi, e in sintonia invece con alcune delle illustrazioni del "Monello", il tema del congegno bellico è rielaborato sotto la specie di un anelito alla forma che in quello stesso momento, come è noto, stava pervadendo lo scenario artistico italiano e che in Sironi assume una struttura conchiusa, fatta di volumi compatti e masse uniformi di materia cromatica. C'era Funi tra gli artisti di Nuove Tendenze (compagine vicina ai futuristi, nata a Milano nel 1914 in seno alla Famiglia Artistica e subito sfrangiatasi), che l'ufficiale Sironi dovette conoscere sempre meglio durante le licenze militari trascorse a Milano tra 1916 e 1918 e dopo che insieme avevano preso parte alla balda esperienza del Battaglione Ciclisti nel 1915. Con Funi, assieme a Dudreville e Russolo, Sironi avrebbe firmato Contro tutti i ritorni in pittura nel 1920. Arruolato nel corpo dei bersaglieri, Funi fu inviato al fronte nel 19161917: sull'Isonzo, sul Piave, a Caposile.
L'impatto fu traumatico: smise di dipingere, come ricorderà lui stesso nel 1925. Ma non smise di disegnare. A Giovanni Titta Rosa riferirà di aver «accumulati più di cinquecento disegni" di guerra durante la permanenza al fronte, purtroppo per la gran parte dispersi durante la drammatica ritirata di Caporetto (in Aligi [G. Titta Rosa], Visite ad artisti: Funi, in "La Fiera Letteraria", Milano, 29 gennaio 1928, p. 4). Di quelli che restano se ne espongono due che chiariscono la particolare natura geometrica che h distingue, vicina alle scomposizioni formali del futurismo di quel preciso momento, il cui segno sfrangiato li accosta però a ricerche espressioniste evidentemente ispirate a Derain. È invece ancorato a una più classica definizione formale, che gli derivava in quel momento dall'amore per la luce di Leonardo, per il Quattrocento di Masaccio e di Paolo Uccello, per Raffaello e Tiziano, lo struggente ritratto post mortem di Roberto Sarfatti a cavallo affiancato da due alpini. Fu la madre Margherita a chiedere a Funi di dipingerlo ispirandosi molto precisamente a una fotografia che lei teneva nel suo studio dopo che il suo piccolo Antinoo aveva perso la vita in battaglia sull'Altopiano di Asiago, non ancora diciottenne, il 28 gennaio del 1918.
Più saldamente legata all'idea del conflitto decantata dal movimento futurista è la ricca vicenda di guerra del pittore-soldato Anselmo Bucci, che tra l'esperienza del Battaglione Ciclisti a Dosso Casina e il dramma del fronte ci ha lasciato dipinti, numerosi disegni dal contorno deciso e abbreviato tracciati a carboncino o a matita grassa vicini a quelli di Carlo Erba, litografie, puntesecche, lettere, taccuini. I quattro dipinti esposti dal ritratto del nemico (contraltare all'effigie di Roberto Sarfatti di Funi) al fuoco e alle deflagrazioni dei cannoni (gli stessi soggetti di Sironi) testimoniano un avvincente percorso artistico diviso tra aderenza alla realtà (secondo una versione indigena di costruttivismo cézanniano allora diffusa nella Firenze dei vociani), espressionismo fauve nelle cromie e nelle pennellate (derivatogli dalla lunga stagione parigina) e ricerche formali che di lì a poco sarebbero approdate al clima di "Novecento", di cui Bucci fu uno dei promotori.
LA BATTAGLIA E IL FRONTE: DALLE GESTA AL DISINGANNO
Francesco Leone
"Dio disperda chi uccise in noi la pietà" (Baccio Maria Beoni, dalle pagine del Diar"Dio disperda chi uccise in noi la pietà" (Baccio Maria Beoni, dalle pagine del Diario personale relative agli ami di guerra).
Se si esclude l'iconografia delle tecnologiche "macchine" di guerra (dai lanciafiamme ai carri armati), ancora ignote all'uomo di fine Ottocento, una parte cospicua della produzione dei pittori di guerra si incentra su tre generi artistici "classici": la ritrattistica, il paesaggio, la pittura di battaglie.
Se i dipinti relativi ai primi due generi si mantennero su corde in qualche modo consuete, realizzati durante le pause dei combattimenti o nelle retrovie, ma sempre in una chiave intimista, la foga della battaglia, in una straordinaria varietà di linguaggi formali che andava dalle ultime propaggini del realismo al lessico simbolista, alla rivoluzionaria rottura delle avanguardie, contribuì a rinnovare profondamente il genere militare, perpetuandone per l'ennesima ma ultima volta una fortuna che continuava ininterrotta da secoli. Certo, oltre alle novità formali, anche le invenzioni del genio, della scienza e della tecnologia dell'uomo moderno contribuirono a rivoluzionare profondamente l'immagine del combattente e delle battaglie.
L'utilizzo delle maschere antigas ad esempio, l'elemento più eclatante ed evidente di questo moderno universo visivo legato alla figura del soldato, trasformava poveri individui destinati quasi certamente alla morte (o condannati alla straziante trasformazione in assassini senza pietà) in inquietanti figure demoniache, seriallazate, che emergevano dalle trincee al momento dell'assalto come dalle viscere della terra sbucano gli uruk neri e gli orchi deformi ideati da Tolkien a partire dall'immediato dopoguerra, appena tornato dal fronte occidentale e con la terribile battaglia della Somme negli occhi. Gli artisti italiani, comunque, pur nella innovazione dei linguaggi, dipinsero le scene di battaglia abdicando raramente al registro eroico derivato dal retaggio ottocentesco e dalla lunga durata degli ideali risorgimentali, a testimonianza visiva di quello slancio che allo scoppio del conflitto aveva stretto tutti, anche i più accaniti neutralisti, sono le insegne di un amplissimo patto di solidarietà nazionale senza precedenti nel giovane Regno d'Italia. Si legano in questa prospettiva opere di artisti anche molti distanti tra loro. Baldessari, avvicinatosi al movimento futurista fiorentino nel 1915, entratovi definitivamente nel 1916, nell'Assalto in trincea degli italiani dipinto nel 1917-1918 rievoca nella composizione La Libertà che guida il popolo sulle barricate di Delacroix, mentre il linguaggio formale è già una perfetta esemplificazione del suo futurismo geometrico e monumentalizzato, elaborato gomito a gomito con Rosai e Soffici e con gli amici del caffè fiorentino delle Giubbe Rosse, guardando all'ultimo Boccioni e alla particolare ricostituzione formale che a Firenze si stava formulando. L'eroismo e la costruzione compositiva piramidale con la preminenza della figura centrale sono gli elementi dominanti anche nell'Assalto dei granatieri di Crema del 1917, assieme al filo spinato del reticolato, assurto a simbolo negativo dello sfinimento e dell'oppressione delle truppe in trincea.
Qui il codice formale è dato dal divisionismo atipico di Crema, di nanna simbolista, elaborato a Roma (visi era trasferito nel 1903) insieme a Noci, Lionne, Innocenti guardando Balla, ma saldamente ancorato a quella "larghezza di disegno" che colpì de Pisis nel 1922 durante una visita allo studio del pittore (in "Gazzetta Ferrarese", 14 aprile 1922). Nominato ufficiale di fanteria e inviato a combattere nelle trincee attorno a Gorizia e sul San Pietro Vertoiba, ne ritornò con una serie di schizzi, disegni e alcune tavolette (questa in mostra è una di quelle) che hanno un coefficiente di realismo piuttosto inconsueto per Crema, dovuto alla profonda esigenza di voler rappresentare quelle atrocità. Il bersagliere conte Federico Grifeo, che muore eroicamente appena ventitreenne durante la battaglia di Flondar del 25 maggio del 1917 (medaglia d'oro alla memoria), campeggia atteggiai come un prigione di Michelangelo in una delle due tele di Chini, del 1917-1918.
Ricchi di pathos, improntati al suo linguaggio secessionista, i due dipinti con gli assalti degli Arditi sono affidati a uno stile sintetico, cromie intense e impianto grafico nettamente delineato. Molto vicini alle figure di Chini, per impaginato ma soprattutto per linguaggio, sono i soldati assiepati dietro alla mitragliatrice di Alle Grave di Papadopoli (isola lambita dal Piave, teatro di numerose, dure battaglie) di un altro fiorentino, Bacci, che dal fronte aveva riportato album di disegni, qualche dipinto e un tremendo pensiero, indizio di Profondo disinganno, affidato alle pagine di un Diario personale che aveva iniziato a scrivere nel 1905: "Dio disperda chi uccise in noi la pietà".
La prostrante consapevolezza di questa mutazione antropologica verso la bestialità registrata da Buoni tornava nei soldati in trincea di Passar a metà tra ritratto e scena di battaglia privati della loro identità individuale e rigettati nel novero massificato dei combattenti, stretti nella morsa del freddo e della notte durante una di quelle infinite, snervanti, lunghe pause che sfiancando i combattenti cadenzarono la guerra di posizione; una delle maggiori cause della disillusione che colse i milioni di giovani andati al fronte con la brama incosciente della valorosa impresa. La sua visione antieroica della guerra, pur essendo lui partito volontario come alpino nonostante una grave insufficienza toracica (ma amava profondamente le Dolomiti), Rossaro l'avrebbe in seguito affidata a un'ironica autobiografia sul periodo bellico illustrata con trentasette disegni, pubblicata nel 1939 a Roma dal 10° Reggimento degli Alpini: La mia guerra gioconda.
Lo stesso spirito di disillusione torna nel primitivismo infantile, calligrafico e illustrativo dei due disegni con i campi di battaglia a volo d'uccello di Salietti. Mentre si trasforma in un vero e proprio grido di disperazione nei larvali disegni di Caminetti, privi di ambientazione, con figurine fluttuanti e astraenti date da segni incrociati e sovrapposti di carboncino che simulano in bianco e nero il particolare divisionismo della sua pittura. Partito volontario in cavalleria sul fronte francese delle Argonne, poi trasferito in Italia, sul Carso e sul Grappa, divenuto corrispondente e disegnatore di guerra, ferito, tornato al fronte dopo la convalescenza, Cominetti ci ha lasciato all'incirca trecento disegni di guerra, dai quali emergono il disordine, il frastuono assordante, il disorientamento ingorvenabile, il disfacimento assoluto provocato dalla guerra tecnologica dell'uomo moderno.
LA GLORIA
Fernando Mazzocca
Il modello di un'arte nuova, quel classicismo sostenuto dalle istanze del cosiddetto "ritorno all'ordine" seguito al grande rivolgimento storico rappresentato dal conflitto, ebbe una prima opportunità di affermarsi nella celebra: zione dei caduti, del sacrificio e della vittoria. Si manifestò una inevitabile ondata di retorica celebrativa, sia in pittura che in scultura, che andrà inesorabilmente a saldare in un unico slancio ideale e creativo due vittorie, quella della guerra e la conquista fascista della nazione avvenuta nel 1922. Comunque ripercorrere i sentieri della gloria fu una straordinaria risorsa per gli artisti, soprattutto gli scultori, che, diversi per generazione, formazione e linguaggio, seguirono percorsi sia sperimentali che tradizionali. In un tema privilegiato come quello della celebrazione della vittoria si può cogliere la varietà con cui fu risolta la sua rappresentazione allegorica nel corso dell'intero ventennio fascista. Questa moderna mitologia venne radicata nell'immaginario collettivo in infinite formulazioni, dalle sculture singole a interi complessi monumentali che vanno dal grandioso Monumento alla Vittoria di Bolzano, una sorta di moderno arco di trionfo eretto nel 1928 per il decennale della vittoria che vide affiancati due protagonisti della scultura di quegli anni come Wildt e Andreotti, alla piazza della Vittoria a Brescia, un solenne percorso urbanistico e monumentale realizzato a partire dal 1929 su progetto di Piacentini. Ancora nel 1937 la Sala della Vittoria allestita alla VI Triennale di Milano accoglieva alla fine del cannocchiale prospettico dei luminosi spazi razionalisti di Persico lo stilizzato gruppo di un Fontana ancora figurativo. L'opera, oggi perduta, fendeva quell'atmosfera metafisica e rarefatta. Ancora prima della fine del conflitto La Vittoria del Piave, scolpita nel 1917 da Minerbi, un artista caro a d'Annunzio, anticipava nella sua nudità sinuosa e nella estenuata eleganza ancora liberty l'esito felice della guerra e inaugurava un percorso iconografico dove si imponeva l'ultimo simbolista Wildt che, già alla vigilia dello scontro, in raffigurazioni di un efferato e crudele eroismo come il Vir Ternporis Acti (1913) e Il prigione (1915) era sembrato, come avviene ai grandi artisti, presagire la catastrofe imminente. Tra il 1918 e il 1919 realizzò uno straordinario monumento privato, La Vittoria, una testa in marmo con delle grandi ali dorate e una scia di stelle issata su di un'asta di bronzo e collocata nell'atrio del fantastico palazzo Berri Meregalli, capolavoro liberty di Giulio Ulisse Arata terminato nel 1914. Paragonata alla prora di una nave o alla fusoliera di un aeroplano, è sicuramente la rappresentazione più originale di quel tema e Wildt ne ha ritagliato e replicato il dettaglio del volto, come nella versione in bronzo qui esposta appartenuta alla sua autorevole sostenitrice Margherita Sarfatti. Di fronte a questa spiazzante iconografia, quasi surrealista, rientrano nei ranghi le pur suggestive tradizionali trasposizioni allegoriche della Vittoria alata di Trentacoste, di Mistruzzi e di Bistolfi, affidate alla superficie vibrante di bassorilievi, medaglie e targhe commemorative. Rimase solo un sogno ambizioso, documentato dal bellissimo bozzetto in gesso proveniente dal suo atelier, il Monumento ai caduti di Torino progettato e continuamente rielaborato, dal 1923 al 1933, da Bistolfi. Opera complessa, proponeva un percorso allegorico culminante nella rappresentazione delle Alpi, dove l'imponente baluardo naturale posto a difesa dell'Italia, che era stato il grandioso teatro della guerra, veniva trasfigurato in una rappresentazione simbolica composta da una schiera di figure eroiche prive di consistenza materiale, ma che hanno la sostanza onirica delle visioni.
LE VITTIME
Fernando Mazzocca
La rievocazione della guerra vittoriosa che in pittura, come nel caso di Nomellini, aveva La rievocazione della guerra vittoriosa che in pittura, come nel caso di Nomellini, aveva assunto una dimensione epica pronta a tradursi nella mitologia di un nuovo Risorgimento nazionale e la commemorazione dei caduti che in scultura, come nella maggior parte dei monumenti realizzati un po' ovunque, era diventata la retorica "industria del cadavere", come nel 1923 aveva denunciato Carrà, hanno per fortuna conosciuto anche percorsi alternativi dove emergevano, dietro le quinte di quella rappresentazione eroica che tanto poco o solo in parte corrispondeva con la realtà, i mali della guerra, le difficoltà del dopoguerra e il triste bilancio delle vittime certamente più pesante di quello degli eroi.
Un'opera unica, sia per il tema che per la sua impressionante risoluzione formale, è il monumentale dipinto di Aroldo Bonzagni dedicato ai Rifiuti della società, realizzato tra il 1917 e il 1918, che si può considerare come il testamento di un grande pittore scomodo, scomparso precocemente proprio nel 1918 e ricordato dall'amico Wildt con uno straordinario monumento funerario, realizzato grazie a una sottoscrizione promossa da Toscanini e collocato al Cimitero Monumentale di Milano. Nelle tre grandi maschere del Dolore, della Commedia e della Satira, collocate intorno a un albero stilizzato, veniva ricordata la vena versatile di un artista curioso e controcorrente che era stato amico di Boccioni e aveva firmato nel 1909 il primo manifesto futurista. Il suo stile molto particolare si accostava nel disegno netto e nei colori accesi alle poetiche dello Jugendstil e alla cultura della Secessione viennese e tedesca, ma anche all'espressonionismo di James Ensor e Ernst Ludwig Kirchner.
La sua sensibilità alle problematiche sociali ne fece un feroce inteprete del disagio soprattutto nella serie satirica del Voto alle donne e in quella intitolata I comandamenti di Dio dove denunciava la crudeltà e gli orrori della guerra in corso. Al termine del conflitto i Rifiuti della società rappresentano, in una dimensione grottesca e in una visione spietata che fa pensare a Grosz e sembra anticipare l'atmosfera di un dramma di Brecht, una scena di desolazione e di emarginazione ambientata nella periferia milanese contro il fondale di palazzoni squallidi, con poche finestre, cupi come fortezze che nascondono l'alienazione. Un realismo meno espressionista, ma improntato a una crudezza che rimanda alle atmosfere della Nuova Oggettività tedesca, caratterizza la impressionante serie di dipinti
dedicati alla guerra di Giovanni Costantini. Vicino a Sartorio, aveva realizzato nel primo decennio del Novecento opere di denuncia sociale come Dai campi di riposo e Folla triste (Ravenna, Accademia di Belle Arti). Anche se non partecipò direttamente al conflitto, rimase impressionato dalla drammaticità e dalla violenza di quegli eventi e volle rappresentarli in una serie di dipinti che, osservandoli come da dietro le quinte, ne rivelassero il cinismo, l'orrore e il dolore.
A un primo gruppo di composizioni simboliche, intitolate La guerra, Il bottino, Il dominio militare, La vittoria, realizzate nel 1914, seguirono sino al 1921 i quarantatré dipinti di grandi dimensioni che composero il ciclo Lacrime di guerra, esposto alla Biennale romana del 1921, dove gli venne dedicata una sala personale. La crudezza di alcune di queste opere suscitò violente reazioni polemiche sino all'accusa di disfattismo. Il piano di attacco, Dopo l'assalto e Ritorno alla vita, caratterizzati da un linguaggio che ha l'incisività e la potenza visiva dei cartelloni illustrati o del cinema, compongono una sorta di trittico dove il violento realismo dell'immagine è amplificato da inserti simbolici come nel primo dei tre dipinti dove la figura della morte con la grande falce e con un ghigno feroce scruta da dietro una vetrata un gruppo di alti gradi intenti a segnare su una mappa il destino, appunto di morte, di tanti uomini. Quei soldati ritratti come automi spietati e irrimediabilmente segnati dalla crudeltà della loro condizione nel terribile Dopo l'assalto. Mentre in Ritorno alla vita la mestizia dei feriti non comunica che una infinita desolazione.
Come quella che ritroviamo nelle parole dell'interventista Renato Serra, uno dei primi caduti nel 1915: "Come si vede e si sente diversa la guerra, a esserci in mezzo. Si fa. Ma è ormai come la vita. E tutto, non è più una passione, né una speranza. E, come la vita, è piuttosto triste e rassegnata: ha un volto stanco, pieno di rughe e di usura, come noi". La stanchezza e la rassegnazione sembrano deformare e incurvare il corpo dei reduci come li rappresentano su sfondi desolati Viani e Soffici. Mentre Emilio Notte, in una sintesi che risente ancora del passato futurista, rievocava nel 1919 La distribuzione del pane ai soldati rassegnati. Pieno di rughe è il volto della Madre benedicente di Baroni, una sorta di idolo impietrito in un dolore non più marginabile, come quello di tante altre madri che avevano perso il marito o i figli, a partire da
Le vedove rappresentate verso il 1915 da Chini in una teoria di giovani donne ammantate e dolenti strette in uno spazio bidimensionale, senza prospettiva come quello di un bassorilievo antico. Questa sacralità appare ancora più accentuata nel monumentale trittico realizzato nel 1919 su commissione della Associazione Nazionale delle famiglie dei Caduti e Dispersi in Guerra. L'opera è una mesta celebrazione del dolore di tante famiglie e ancora delle madri rimaste sole davanti alla tomba che si apre come una voragine crudele in primo piano, dominata dalla figura tagliata a metà di un Crocifisso che fa gocciolare rivoli di sangue su un teschio. Lo spazio appare cadenzato da un ritmo solenne dove le figure dei rimasti si stagliano nella luce invernale sullo sfondo di un muro bianco al di là del quale si intravvede un cielo smaltato da un azzurro oltremarino, striato dalle nuvole e segnato dalle trame simboliche di alberi spogli come in una pala del Quattrocento. Ma colpisce anche la tensione delle sagome piatte e campite delle figure che rimandano ai Nabis e comunque al linguaggio delle avanguardie postimpressioniste. L'affiato religioso con cui viene celebrata la maternità dolente pervade un altro trittico, quello presentato da Cagnaccio di San Pietro alla Biennale di Venezia del 1924.
La protagonista, una sorta di "madre coraggio" che ha sperimentato l'infinito dolore della morte al fronte del figlio, ne sorregge come la Vergine di una moderna Pietà il cadavere. Questo nudo antieroico che, collocato di scorcio, rimanda al Cristo morto di Mantegna, variandone nel movimento scomposto della gamba destra la nobiltà della posa. Anche il ribaltamento prospettico del pavimento nei due scomparti laterali rimanda al Quattrocento, in una accentuazione prospettica funzionale alla resa realistica di ogni dettaglio, degli oggetti protagonisti della umile esistenza quotidiana che vanno a comporre una serie di nature morte tra cui spicca, nella sua tragica ed eloquente evidenza, quella composta dalla borraccia, dalle giberne, dal cinturone e dal pugnale racchiuso nel suo fodero rappresentati al centro nella terra riarsa e desolata che domina il primo piano.
Anche un personaggio sulla ribalta ufficiale come Margherita Sarfatti venne travolta dal dolore per la morte del figlio Roberto, ricordata in un bellissimo disegno di Wildt del 1921 dove, sotto la rappresentazione di un Cristo morto e di una schiera di madri dolenti, spicca la scritta straziante, dettata dalla stessa Sarfatti: "Mi dolgon, fanciullo, le pene che più non mi dai".
UOMINI ED EROI
Fernando Mazzocca
Negli anni del dopoguerra la celebrazione della vittoria e la commemorazione dei caduti, cNegli anni del dopoguerra la celebrazione della vittoria e la commemorazione dei caduti, che si tradussero in una serie impressionante di commissioni pubbliche, si inserirono nella tradizione della scultura monumentale che aveva rappresentato le vicende e gli eroi del Risorgimento.
Come allora, anche adesso l'intento era quello di esaltare l'identità e l'unità della nazione che si era rafforzata negli anni del conflitto e di ricordare il contributo di sangue versato da ogni comunità del paese che aveva partecipato al sacrificio collettivo. La rapidità dell'esecuzione e la quantità delle iniziative realizzate un po' ovunque rendono difficile seguire e ricostruire esattamente la dimensione di questo fenomeno, anche perché molti di questi monumenti sono andati perduti durante la Seconda guerra mondiale per la necessità di recuperare il metallo per le nuove esigenze belliche. Resta il fatto che per la scultura l'occasione fu straordinaria e coinvolse, facendoli confrontare attraverso il meccanismo dei concorsi pubblici, artisti molto diversi per generazione, formazione e stile.
La continuità rispetto al Risorgimento trovò la sua conferma nella conclusione del più grande monumento italiano, quello dedicato nella capitale a Vittorio Emanuele II, la cui prima pietra era stata posata nel lontano 1885, mentre la grande statua equestre del sovrano venne eretta nel 1911. Questo grandioso cantiere doveva tenere occupati per decenni scultori provenienti da ogni parte d'Italia, tra cui alcuni come Canonica, Ximenes, Pogliaghi e Bistolfi sono documentati nelle diverse sezioni di
questa mostra. Nel 1921 l'Altare della Patria assumeva un nuovo e ancora più coinvolgente significato attraverso una nuova consacrazione al Milite Ignoto. I caduti senza nome venivano ora ricordati come i veri eroi di una guerra che aveva visto spesso un rapporto conflittuale tra gli alti gradi e i semplici soldati e furono og, getto di rappresentazione da parte di scultori che nella grande mole del Vittoriano si erano espressi in una dimensione storica e allegorica a loro congeniale.
La continuità con la grande scultura monumentale degli anni precedenti la guerra è rappresentata dall'opera di Canonica che, in uno stile naturalista legato ancora a un gusto ottocentesco, fu impegnato in molte imprese pubbliche. Questo consumato specialista del genere militare, apprezzato e richiesto a livello internazionale dalla Russia alla Turchia, ci ha lasciato, nei suoi numerosi monumenti funerari o celebrativi, come quelli all'Alpino di Courmayeur (1922), ai Caduti di Bene Vagienna (1922), al Cavaliere d'Italia (19221923), ai Caduti di Santa Margherita Ligure (1923), all'Alpino di Aosta (1923), all'Alpino di Biella (1923), ai Caduti di Chieti (1924), ai Caduti di Acqui (1926) e in particolare nell'impegnativo Monumento all'Artiglieria, eretto nel Parco del Valentino a Torino nel 1930, un'immagine familiare ma proiettata in una dimensione epica ed eroica molto coinvolgente del soldato senza nome che era stato il vero protagonista della guerra. Ormai nel 1940, alla vigilia del secondo e ancora più terribile conflitto mondiale, Canonica dedicava un impressionate
monumento a L'Umile Eroe, non più un uomo ma il "muletto degli Alpini" che era stato decorato con la medaglia al valore e che era già stato ritratto al vero dall'artista nel Monumento all'Alpino di Biella.
Gli "umili eroi", raffigurati con precisione realistica dal celebrato e richiestissimo scultore ufficiale, appaiono invece trasfigurati e individuati in una dimensione priva di ogni retorica e di accenti patetici quando vengono rappresentati da parte degli scultori di un'altra generazione, che si erano formati nelle sperimentazioni delle avanguardie e ora si ritrovavano tra i ranghi del cosiddetto "ritorno all'ordine", protagonisti come Mistruzzi e soprattutto Rambelli e Baroni. I corpi mutili e i volti ritagliati dei loro marinai e dei loro fanti non hanno nulla di naturalistico e tantomeno di eroico. Rendono, nella loro cruda essenzialità plastica, il dolore di un sacrificio senza riscatto, quale appunto Baroni intendeva significare nel monumento dedicato al fante che avrebbe dovuto realizzare — ma il progetto non andrà in porto — in uno dei più celebri teatri della guerra, il Colle San Michele nei pressi dell'Isonzo, divenuto con il Piave il fiume sacro alla patria. Lo sguardo asciutto e lo spirito antiretorico di questi giovani scultori, Rambelli e Baroni, li ritroviamo nei versi di un poeta soldato come Ungaretti che "accoccolato / vicino ai miei panni / sudici di guerra" si era "disteso" come "in un'urna d'acqua" nel letto dell'Isonzo che "scorrendo / mi levigava / come un sasso".
Di fronte a queste sculture, levigate o scabre, comunque essenziali proprio come sassi, ci portano in un'altra dimensione, che è quella della illustrazione e della retorica patriottica, le forme di un protagonista dell'arte ufficiale come Ximenes che, partito in guerra come volontario, aveva improvvisato uno studio a Cervignano del Friuli dove aveva modellato una serie di ritratti a mezzo busto e a figura intera del duca e della duchessa d'Aosta, che si erano distinti al fronte, e di alcuni generali, tradotti in bronzo gli anni successivi.
Tra i protagonisti di questa arte celebrativa ha avuto un grande rilievo, anche perché questa sua attività finiva con il sovrapporsi a quella svolta come il più autorevole architetto del regime fascista, Marcello Piacentini. A lui si deve il progetto dei due colossali archi trionfali, quello ai Caduti realizzato a Genova tra il 1923 e il 1931 e quello alla Vittoria di Bolzano nel 1928, che furono due straordinari cantieri per i maggiori scultori contemporanei come Andreotti, Dazzi, De Albertis, Messina, Wildt. Sempre a Piacentini si devono l'ampliamento e la definitiva sistemazione nel 1936 di un santuario dedicato alla guerra come la Casa Madre dei Mutilati e Invalidi costruita tra il 1925 e il 1928. In questo edificio solenne, dove Giuseppe Santagata e Cipriano Efisio Oppo si erano cimentati nel grande impegno epico della pittura murale affrescando la grande Corte delle Vittorie con scene celebrative delle battaglie vinte, entrava nel 1937 il monumentale trittico L'Eroica di Previati, un'opera che realizzata nel 1907 era sembrata come la premonizione del conflitto che avrebbe scosso il mondo. In una impetuosa pittura monocromatica dai toni
accesi e dal movimento vorticoso — i furiosi cavalli che dominano il pannello centrale rappresentano gli spettri dell'ira e della paura e anticipano quelli della Città che sale di Boccioni — Previati aveva voluto esprimere la violenza e l'assurdità della guerra rifacendosi a un colossale dipinto, Gli orrori della guerra (Ferrara, Municipio), eseguito nel 1894 forse per ricordare i Cinquecento massacrati nel 1887 a Dogali.
Il pittore ritornerà sul tema in un altro trittico, quello dedicato nel 19151918, quindi in significativa coincidenza con gli anni del conflitto, a La battaglia di Legnano, rappresentata senza romanticismo come uno scontro dominato da un senso di cupa e cieca tragedia. Sempre la Casa Madre del Mutilato accolse anche due capolavori di Wildt, le teste idealizzate di due eroici caduti come Fulcieri Paulucci de' Calboli e Giulio Giordani, i martiri che eretti sui loro lunghi piedistalli si fronteggiano, fissando l'uno sull'altro lo sguardo delle loro inquietanti occhiaie vuote. Un'occasione di mettere a confronto i diversi linguaggi della scultura celebrativa fu il concorso, svoltosi in più riprese tra il 1933 e il 1935, per il monumento al duca d'Aosta, l'eroe di guerra ormai entrato nella leggenda, che era destinato a piazza Vittorio a Torino. Dopo l'eliminazione degli altri concorrenti, si fronteggiarono Martini e Baroni, proponendo due soluzioni molto diverse.
Fu scelto il progetto di quest' ultimo, portato a termine, dopo la sua morte avvenuta nel 1935, dallo scultore romano Publio Morbiducci, e inaugurato, cambiando il sito, in piazza Castello nel 1937. Vi compare
una schiera di soldati vittoriosi, identificati nelle loro divise, che si stringono fieri intorno al loro comandante. Al realismo espressionista di Baroni, Martini contrappose una sorta di visionaria installazione monumentale scandita da figure allegoriche e iconografie ispirate a un classicismo arcaico, proiettato nella dimensione di quei miti ancestrali allora frequenti nelle più sofisticate realizzazioni artistiche del regime, come nella pittura murale di Sironi che nel 1935 affrescava l'Aula Magna dell'Università di Roma con la rappresentazione allegorica de L'Italia tra le Arti e le Scienze, una grande scena corale dominata dalla gigantesca figura alata della Vittoria di cui esponiamo il grande modello.
Su questo tema, in particolare il motivo della testa della Vittoria che fende l'aria, è significativo il confronto tra le diverse sensibilità dei due rivali: Baroni, che sfoggia una estenuata eleganza lineare déco, e Martini, che sembra reinventare i volumi con la tensione di un artefice primitivo come avevano fatto Modigliani e Picasso nei tempi eroici delle Avanguardie. La rappresentazione allegorica della Vittoria ritorna anche nella statua realizzata nel 1928 da Rubino, su commissione della famiglia Agnelli e destinata al colle torinese della Maddalena. Come nel bronzo precedente Pax labore vincit del 1922, raffigurazione emblematica della volontà di ricostruzione che caratterizzò il primo dopoguerra, la figura sprigiona nel fascino delle raffinate forme ellenistiche un ottimismo vitale, come se intendesse riaccendere le luci della Belle Epoque che la Grande guerra sembrava avere spento per sempre.
ETTORE XIMENES, Il duca d'Aosta, 1915-1918
ETTORE XIMENES, S.A.R. Il duca d'Aosta, 1917 circa
PIETRO CANONICA, Bozzetto per l'Alpino di Courmayeur, 1922
PIETRO CANONICA, Bozzetto per il monumento al Cavaliere d'Italia, 1922-1923
EUGENIO BARONI, La Vittoria, 1929
Info mostra
La Grande Guerra
Gallerie D'Italia
Milano
Date della mostra
1 aprile – 23 agosto 2015