A cento anni dalla sua fondazione, il futurismo torna nella città che è stata l'incubatrice e la sede d'elezione dei suoi primi e più fervidi anni, con una mostra ricca di circa cinquecento opere, che si propone di scandagliarlo secondo una chiave di lettura storica, libera dai condizionamenti ideologici che troppo a lungo hanno pesato (e che all'estero continuano tuttora a pesare) sulle scelte di alcuni suoi protagonisti, e allo stesso tempo affrancata dalla volontà catalogatoria, inevitabilmente un po' onnivora, che ha guidato la ricerca durante la seconda metà del secolo passato.
Se nel corso del Novecento tale lettura, che pure resta l'indispensabile antefatto di ogni lavoro successivo, era resa necessaria dal bisogno di riscoprire tutti gli aspetti e tutti i risvolti di un movimento tanto complesso e ramificato, il distacco consentito dal passaggio del secolo permette ora di accostarvisi con lo stesso sguardo "raffreddato" con cui si studiano fenomeni artistici più lontani e di applicare anche a questa materia, in apparenza ancora incandescente, gli stessi strumenti storiografici che si utilizzano per le grandi stagioni artistiche del passato. Entrati nel XXI secolo e conquistata una prospettiva più distanziata, ci sembra che lo storico dell'arte sia ormai autorizzato a compiere sul futurismo un'analisi formale a partire dalle opere soltanto, lasciando in penombra gli aspetti cronachistici del movimento e affidandosi invece alla sola voce dei testi artistici che in seno a quel movimento sono stati creati. Perché è proprio dalla potenza innovatrice e dalla qualità estetica di quelle opere che si può misurare la forza d'urto del futurismo sulle vicende culturali italiane, e non solo italiane, nel corso del secolo che si è appena chiuso. Il percorso della mostra, che pure è ricco di opere capitali di ogni periodo grazie alla stretta collaborazione delle Civiche Raccolte d'Arte milanesi e al supporto determinante della Galleria Nazionale d'Arre Moderna di Roma
e del MART di Rovereto, oltreché all'apporto di importanti collezionisti privati, è stato dunque composto con l'intento di ricostruire il tessuto della produzione artistica futurista non tanto attraverso le sue "icone" più celebrate quanto piuttosto attraverso la ricerca attenta, opera per opera, di quelle testimonianze che meglio sapessero documentare il reale e fondamentale apporto del futurismo all'arte moderna italiana.
Poiché la nostra mostra si pone all'interno della rete di eventi espositivi che un po' dovunque, a partire da Parigi, celebrano il centenario del futurismo, si è inteso darle un taglio che la rendesse diversa da tutte le altre: non dunque un affondo su una precisa congiuntura storica, sicuramente suggestivo ma forzosamente ristretto (come è accaduto prima a Parigi, ora a Roma e poi a Londra nella rassegna che prende in esame i nodi e gli intrecci internazionali scaturiti dalla congiuntura del 1912), né un esame della rete di relazioni intessuta nel tempo dal futurismo con altre realtà europee (come accade al MART di Rovereto, dove si affrontano i rapporti con la Germania e la Russia), né l'indagine di un aspetto formale specifici) (dall'opzione astratta, compiuta principalmente da Balla ma non solo da lui, oggetto della mostra veneziana al Museo Correr, al focus sulla scultura, al centro della rassegna milanese del prossimo autunno).
E nemmeno si è voluto documentare specificamente la figura di F.T. Marinetti, anche attraverso la cronaca e la "sociologia" del movimento cresciuto intorno a lui, essendo questo l'oggetto della mostra in corso alla Fondazione Stelline a Milano, che alla nostra è strettamente interrelata. L'obiettivo che ci siamo posti è stato invece quello di ripercorrere per intero, in ognuno dei linguaggi espressivi in cui il futurismo si è cimentato, tutti i trent'anni di creatività del movimento e, insieme, di ricontestualizzare la produzione artistica futurista nei suoi molteplici aspetti all'interno del flusso della "modernità" che è stato proprio del Novecento: la molteplicità dei campi d'intervento del futurismo e la sua dichiarata, programmatica volontà di ridisegnare l'intera realtà secondo i propri rivoluzionari modelli, ha rappresentato infatti la specificità più forte del futurismo in seno alle avanguardie europee del primo Novecento. E ogni esame del movimento non può esimersi dal darne conto, pena un radicale fraintendimento della sua natura.
Al contempo, proprio per radicarlo nel suo tempo, si sono volute evidenziare da un lato le eredità che raccolse, dall'altro i lasciti che seppe affidare alle generazioni future. L'obiettivo è stato dunque quelli) di dare un panorama il più completo possibile della creatività messa in campo dal futurismo, organizzandola secondo un asserto storiografico rigoroso, che
facesse capo alle categorie estetiche che strada facendo si sono manifestate. Tuttavia si è deliberatamente evitato di compiere un regesto onnicomprensivo, "notarile", per concentrarsi sulle sole figure che abbiano mostrato di saper superare l'esame del tempo: mancano dunque autori che furono
talora presenti in eventi espositivi di rilievo o che al momento godettero di
qualche rinomanza ma il cui apporto al dibattito teorico o al patrimonio
culturale ed estetico del movimento non abbia retto alla prospettiva resa oggi
possibile dal passaggio del secolo.
Proprio perché la mostra si tiene nella città in cui storicamente tutto ha avuto origine, si è deciso di indagare il futurismo sin dalle sue prime radici - frutto come fu di uno scatto prodigioso di innovazione, posto però ancora in seno alla cultura visiva milanese dell'estremo Ottocento - proseguendo poi fino ai suoi lasciti, che si spingono nel cuore stesso del Novecento: certo una provocazione intellettuale questa, radicata tuttavia anch'essa su riconoscibili e riconosciuti fondamenti storici e capace, ci auguriamo, di offrire qualche spunto di riflessione intorno a quei "semi" che, germogliati nel corpo del futurismo, avrebbero dato frutti nell'Italia del secondo dopoguerra. Perché se critici e storici dell'arte hanno spesso condannato il futurismo per ragioni ideologiche, a causa delle sue collusioni con il fascismo, alcuni grandi artisti hanno invece riconosciuto il valore intrinseco del-la sua ricerca formale ed estetica senza imbarazzi moralistici, ponendosi con esso in un rapporto certo dialettico ma anche assai fruttuoso.
Milano dunque come matrice del futurismo. Le ragioni sono evidenti, essendo sin d'allora la più moderna, evoluta ed europea delle città d'Italia, tanto sul piano economico-finanziario quanto su quello culturale: qui si radicava il Gotha della grande borghesia imprenditoriale e finanziaria italiana; qui si avviavano le prime grandi banche "commerciali" italiane e la Borsa; qui si assisteva a un fenomeno massiccio di inurbamento dalle campagne circostanti che avrebbe modificato il volto urbanistico della città e trasformato radicalmente il suo corpo sociale, innescando scintille di rivolta e sanguinose tragedie, come la repressione dei moti del 1898 per mano del generale Bava Beccaris. Di qui si diffondevano anche i modelli culturali più innovativi del tempo, dal simbolismo (a cui lo stesso Marinetti diede un forte impulso con la sua rivista internazionale "Poesia", fondata proprio a Milano nel 1905) al pensiero socialista. E qui, per restare sul versante delle arti visive, si tenevano le mostre (come le Triennali di Brera) e i premi (come il premio Mylius) che dettavano le linee delle nuove tendenze artistiche.
La mostra si apre dunque con un'approfondita rilettura di quel clima, in bilico tra il simbolismo notturno e visionario di Alberto Martini e Romolo Romani, entrambi collaboratori di "Poesia", intriso questo degli umori distillati nell'Europa centrale e settentrionale (cui saranno così sensibili anche Boccioni e Russolo); il simbolismo di segno più mistico di Previati, e l'arte impegnata nel sociale di Pellizza da
Volpedo, che discendeva per via diretta dalla più che milanese cultura scapigliata. Con loro c'è anche Medardo Rosso, maestro riconosciuto dei "futuri futuristi", sempre citato nei loro documenti programmatici, che con le sue sculture fuse nell'atmosfera avrebbe offerto ai futuristi la grande lezione di una forma resa instabile, smaterializzata dalla luce e compenetrata nello spazio circostante. In questa sezione d'avvio figurano poi i cinque firmatari dei manifesti pittorici del 1910, Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini, la cui militanza in seno al divisionismo nelle due diverse declinazioni viene documentata con larghezza, perché, come affermarono in
Pittura futurista. Manifesto tecnico, "non può sussistere pittura senza divisionismo".
Tocca alla figura di F.T. Marinetti fungere da snodo tra questa stagione ancora radicata nell'Ottocento e la nuova,
deflagrante età dell'avanguardia: è lui infatti il vero detonatore del nuovo corso dell'arte italiana, il demiurgo della rivoluzione estetica che segnerà i primi decenni del nuovo secolo.
Di qui in poi la mostra è articolata per decenni, secondo un percorso che si propone di individuare di ogni decennio la dominante estetica: gli anni dieci sono così posti sotto il segno del
Dinamismo plastico. Con il tema del dinamismo, pittorico prima poi plastico, si introduce infatti nell'arte quello che viene inteso come il nuovo valore assoluto della modernità, sia esso concepito in termini di energia o di cinetismo reale. Non più un'arte statica, dunque, frutto di un esercizio contemplativo che pone la percezione estetica al di fuori del flusso del reale, neutralizzando di fatto la vita, ma un'arte capace di incorporare in sé la vita in quanto pulsione vitale e la realtà nel suo farsi.
Individuato nel dinamismo il valore assoluto della modernità, l'interpretazione avviene tuttavia in modo diverso nei suoi protagonisti: Boccioni e in parte anche Russolo lo intendono infatti in chiave bergsoniana, come "durata" e "stato d'animo", con una costante compresenza di memoria affettiva e vissuto interiore e percezione del mondo fenomenico. Balla, da parte sua, intende il dinamismo come una sorta di flash ottico sul cinetismo dei corpi che attraversano lo spazio urbano, Severini come immersione sensoriale nel movimento estetico della danza in cui il moto è fine a se stesso, mentre Carrà, che di tutti è il più vicino al cubismo, costruisce complesse architetture di piani dinamizzate da incastri slittanti ed eccentrici. Ma in questi anni che rappresentano la fase più sperimentale del futurismo sono numerose e assai articolate le proposte estetiche formulate dai protagonisti, talora scaturite dal confronto dialettico con il cubismo (in Boccioni dopo il 1912 e, come si è detto, in Carrà), talora frutto di un'evoluzione personale, come accade a Balla, che pur senza mai rinnegare il referente giunge sino alle soglie dell'astrazione pura, talora invece derivate dall'apporto di idee delle generazioni più giovani di futuristi. Ligure che magari non entreranno a far parte del nucleo strutturato del gruppo futurista, saldamente imperniato sulle figure di Marinetti e Boccioni (censore severo, lui soprattutto, degli aspiranti nuovi artisti futuristi), ma che ne sposeranno i principi, facendosene interpreti e apportando linfa nuova al movimento.
Insieme ai padri fondatori figurano in mostra, per questo decennio che di tutti è il più articolato, complesso e propositivo, sia i giovani che con manifesti e scritti teorici contribuirono al dibattito sul dinamismo plastico (come Depero e Prampolini) sia altri artisti, come Sironi, che transitò per il movimento declinandone i principi in modo del tutto personale, o Soffici, che da Firenze condusse la sua battaglia per il nuovo, sia infine figure diverse ma significative di fiancheggiatori, come Commetti, Giannattasio, Gino Galli e alcuni dei membri del gruppo Nuove Tendenze (Funi e Dudreville soprattutto): tutte personalità che, spesso in modo decisamente autonomo, diedero un apporto significativo alle ricerche futuriste.
Allo stesso modo, si è cercata una dominante estetica anche per gli anni venti, essendo venuto definitivamente meno il concetto inflazionato e scorretto di "secondo futurismo"', frutto di un equivoco parallelismo con il "secondo cubismo", una categoria formulata in Francia per definire l'asse estetico dell'Esprit Nouveau, che risulta però del tutto inapplicabile a una rivoluzione globale quale è il nostro movimento. Tale dominante è stata individuata nell'Arte meccanica: è quello infatti il filo conduttore delle ricerche dei vecchi e nuovi protagonisti dell'arte futurista in questi anni che seguono la Grande Guerra e che vedono l'Italia (e l'Europa) impegnata nello sforzo della ricostruzione e della riconversione industriale. In questa fase il futurismo non si pone più in antagonismo dialettico bensì in piena e stretta concordanza con le altre avanguardie europee, mantenendo aperta una dimensione internazionale dell'arte italiana anche in questi anni politicamente bui, in cui si insedia e si impone il fascismo.
In questo decennio Depero, che già nel pieno degli anni dieci aveva inaugurato il filone dell'arte meccanica, proseguirà sulla stessa strada dando vita a un'inedita e personale vicenda in cui il futurismo entra in consonanza con la metafisica, ibridandosi in singolari dipinti (e sculture) immersi in un tempo fermo e sospeso. Prampolini, dopo le prime prove sotto il segno del dinamismo boccioniano, grazie alla sua rivista "Noi", da subito aperta all'Europa, sarà il tramite con le altre avanguardie internazionali e creerà opere dalle fitte concatenazioni prima di piani, poi di volumi mentre i giovani Pannaggi e Paladini, firmatari con lui, nel 1923, del manifesto
l'arte meccanica, creeranno un'umanità "meccanica" di automi costruiti con rigidi volumi metallici assemblati, che in Paladini soprattutto si connoterà fortemente anche sul piano ideologico in direzione marxista. Balla, il vecchio maestro (allo schiudersi degli anni venti ha ormai cinquant'anni) capace però di sempre nuove invenzioni, creerà in questi anni dipinti caratterizzati da rigide architetture formali, posti anch'essi sotto il segno del "macchinismo", sebbene non vi figuri una sola macchina, e i futuristi torinesi, che nella seconda metà del decennio terranno alto e vivo il dibattito teorico, formuleranno da parte loro opere esemplari di questa temperie meccanica e del nuovo culto della macchina, ora intesa come "idolo" dispensatore di rigore geometrico e di nitore formale: nell'intero decennio l'arte futurista appare dunque fortemente connotata da questa nuova esigenza di ordine e di chiarezza e, ponendosi in stretta consonanza con l'appello europeo del "ritorno all'ordine", si dimostra capace di dialogare da pari a pari con il resto d'Europa, dalla Francia dell'Esprit Nouveau all'Olanda del neoplasticismo, all'Unione Sovietica del costruttivismo.
Poiché la scelta di campo è stata quella di muoversi su un terreno formale ed eminentemente storico-artistico, partendo dunque solo e sempre dalle opere, scelte esclusivamente in virtù del loro peso storico o della loro qualità estetica, in mostra è rimasta in conseguenza defilata la questione spinosa dei rapporti del futurismo con il fascismo. Che non intendiamo tuttavia sottacere. Tali rapporti infatti ci furono, innegabilmente, benché troppo a lungo e troppo pesantemente abbiano condizionato la lettura del futurismo, in virtù di un'equazione futurismo-fascismo frettolosa e non sempre veridica.
F.T. Marinetti, e noto, fu "sansepolcrista", compagno di Mussolini al momento della fondazione dei Fasci di combattimento che furono istituiti il 23 marzo 1919 a Milano, nella piazza del Santo Sepolcro. F. sebbene nel maggio 1920 fra i due si fosse verificato un allontanamento, a partire dal 1923 lo iato si saldi) nuovamente e il fondatore del futurismo aderì al regime fascista senza più riserve, così come la stragrande maggioranza degli artisti che al futurismo facevano capo, eccettuati alcuni protagonisti degli anni venti che erano invece dichiaratamente marxisti (e dunque svincolati dalla linea dell'ortodossia marinettiana) come Vinicio Paladini o come i torinesi Fillia, Bacci e altri.
Va detto che i futuristi, che predicavano una sorta di "ideologia globale" rivoltosa, tesa a investire ogni aspetto dell'esperienza umana, erano attratti nel fascismo dal risvolto "rivoluzionario" e antiborghese, in un'adesione convinta a quello che Emilio Gentile ha efficacemente definito "nazionalismo modernista"6. Fu, sul principio, quella di Marinetti un'adesione di segno eminentemente "estetico", nutrita di un patriottismo che avrebbe preso le vie dell'interventismo e, più ancora, del culto del nuovo, dell'antiborghese, dell'anticlericalismo: in una parola dell'"antitradizione". Né va dimenticato che Boccioni (morto peraltro nel 1916) e Severini erano marxisti di formazione, Carrà anarchico, Sant'Elia (morto anch'egli nel 1916) militante socialista. E ancora dopo la guerra, e dopo la tragica delusione che ne era scaturita, nel loro
Manifesto del partito politico futurista i futuristi avrebbero inneggiato al "nazionalismo rivoluzionario" e all'"educazione patriottica del proletariato": radicalismo, suggestioni anarcoidi, utopia si intrecciavano dunque, in modo anche confuso e disordinato, nel pensiero politico futurista, da un lato trovando un collante nel diffuso sentimento di insofferenza e di rivolta verso la classe dirigente prebellica e postbellica, dall'altro individuando nell'attivismo rivoluzionario, repubblicano e anticlericale del fascismo una sponda da condividere.
Negli oscuri anni successivi, quelli in cui il fascismo rivelò man mano la sua vera natura totalitaria, se si escludono le eccezioni di cui si è detto, i futuristi sarebbero rimasti fedeli al regime. Marinetti avrebbe cercato di approfittare dell'innegabile liberalità in campo artistico del regime (linea propiziata da alcuni consiglieri di valore dell'entourage di Mussolini, quali Margherita Sarfatti o Giuseppe Bottai) che lasciava libertà di campo ai più diversi linguaggi, ma se è vero che lui nel 1929 fu nominato Accademico d'Italia, va detto tuttavia che a dispetto dei suoi sforzi non riuscì mai a fare accreditare in alcun modo il futurismo come arte "ufficiale" italiana, anche per l'ostilità di tanti gerarchi. Innegabili restano però la spinta verso la modernità che il futurismo avrebbe prodotto e l'apertura al resto d'Europa che negli anni del regime avrebbe più che mai coltivato. E proprio perché con questa mostra ci si è posti l'obiettivo di individuare l'apporto dell'arte futurista alla modernità, si è deliberatamente deciso di non dar conto delle opere occasionali e di "propaganda" (dipinti, sculture, oggetti d'uso che celebrano il duce e le sue inconfondibili fattezze), che pure in seno al futurismo degli anni venti e trenta furono innegabilmente prodotte.
Quanto agli anni trenta, si è individuato in essi il filo conduttore dell'Aeropittura, inedito alfabeto della modernità, che viene declinato secondo le due direttrici fondamentali dell'esperienza fisica e mentale del volare.
Frutto della nuovissima esperienza percettiva consentita dal volo aereo, l'aeropittura apre orizzonti inattesi, rimettendo in discussione quei codici della prospettiva che da sempre costituivano i principi ineludibili della pittura italiana. Con il volo aereo la prospettiva rinascimentale non funziona più: la visione si fa strapiombante, i rapporti spaziali si distorcono, gli orizzonti si incurvano, trasferendo l'uomo "volante" in una dimensione spaesante e talora perfino allucinatoria. In questi dipinti fascinosi si fa palpabile lo stupore di chi per la prima volta nella storia dell'umanità può realizzare il sogno antico quanto l'uomo di staccarsi da terra e di muoversi velocemente e autonomamente nell'aria. Ne derivano soluzioni visive fortemente immaginative, mentre la città, oggetto privilegiato di queste visioni aeree, diventa un tessuto elastico, carico di valenze oniriche. Se per questi artisti lo sguardo si volge dall'alto verso il basso, per altri artisti "aeropittori" la prospettiva si inverte, e l'occhio si alza a penetrare le profondità del cosmo. Il volo si fa così esperienza mentale e si apre su un simbolismo di segno talora cripto-surrealista, qualificandosi come percezione di un'altra utopia antica: quella del mito di Icaro, cioè dell'uomo che affonda lo sguardo nel mistero del divino. E il versante, fascinoso anch'esso, che prende il nome di
Idealismo cosmico, dalla cui costola prende forma l'esperienza, innovativa e così feconda per l'arte del secondo dopoguerra, del
Polimaterismo: Prampolini innesta infatti sulle suggestioni del manifesto boccioniano della scultura, del 1912, e di quello marinettiano del tattilismo, del 1921, la nuova sensibilità "cosmica" e trasfigura la materia caricandola di inediti valori emozionali, fino a "spiritualizzarla".
Come si diceva, tuttavia, un'indagine sul futurismo sarebbe mutila se non si prendessero in esame gli innumerevoli ambiti che questa generosa avanguardia volle "impollinare" con i suoi principi: in mostra figurano così delle sezioni dedicate di volta in volta all'esperienza dirompente del paro-liberismo; alle sperimentazioni messe in atto nella fotografia e nel cinema; alle ricerche innovative condotte da tanti di loro nell'ambito della scena e del teatro non meno che della musica; alle futuribili novità concepite nell'architettura come nelle arti decorative, nella pubblicità, nella moda.
Da ultimo, una sezione intitolata "L'eredità del futurismo" presenta opere di Fontana, Burri, Schifano, Dorazio, e di esponenti della poesia visiva come Miccini e Pignotti, o dell'uso visivo dei segni tipografici come Balestrini, documentando tanto l'azzeramento dell'arte operato dalla nuova generazione del dopoguerra quanto l'omaggio, ideale ma palpabile e talora dichiarato, che questi artisti, ognuno a suo modo, vollero rendere al movimento futurista.
Le ragioni della mostra
Giovanni Lista e Ada Masoero
1. Le due Anime di Marinetti
2. Gli anni dieci: il dinamismo plastico
3. Gli anni venti: l'arte meccanica
4. Gli anni trenta: l'aeropittura
Info Mostra
Futurismo 1909-2009
Data della mostra
6 febbraio - 7 giugno 2009
Milano, Palazzo Reale
Catalogo edito da SKIRA, Ginevra-Milano