Prampolini e la pittura
Enrico Prampolini per me è prima di tutto un familiare di cui conservo innumerevoli ricordi di vita quotidiana nella casa di via Rubicone dove i due fratelli, mio padre Alessandro (Vittorio Orazi) ed Enrico, hanno vissuto dalla metà degli anni venti. Sono ricordi vivi della persona e delle cose: il passo claudicante di mio zio per il lungo corridoio e nello studio, le spalle larghe, le camicie a scacchi e i piccoli papillon, le mani delicate e abili con cui mi costruiva alcuni giochi; e poi, la stanza con le pareti di sughero, i problemi d'insonnia, i giovani pittori (anni cinquanta) che suonavano frequenti alla porta: Michelangelo Conte puntuale e distinto, Achille Perilli in età, e in divisa militare, Piero Dorazio alto elegante e già caustico, Joseph Jarema galante e invaghito della nostra giovane domestica. E ancora, i setacci, i colini, i passini che Prampolini usava per le sue sperimentazioni materiche, per spargere di sabbie e di terre colorate le tele messe in orizzontale tra i cavalletti (ne aveva tre). Pennelli, spatole, odori di diluente, di colle scaldate sul fornelletto elettrico, rumori di martello a frantumare gli zolfi e i lapilli del Vesuvio spediti dall'amico e pittore Raffaele Castello, a sbriciolare i gusci d'uovo raccolti per giorni dalla cucina.
La persona di cui ho questi ricordi diretti è un uomo vitale e maturo, pieno di energia e di creatività, anche se quelli in cui lo ho conosciuto sarebbero stati i suoi ultimi anni di vita per la precoce scomparsa. Ma non mi è mancato neanche il Prampolini precedente, intuito per via indiretta ma non meno intensa: quadri appesi un po' dappertutto alle pareti, disegni che affioravano dalle scansie, una quantità di vecchie pubblicazioni, fotografie: i futuristi a Milano, a Parigi, i futuristi col re, col duce. Riviste e foto ancora più vecchie, prima guerra mondiale, divise grigioverdi, e i futuristi degli anni dieci davanti alle proprie tele, le facce ancora giovani o giovanissime affacciate sull'obbiettivo fotografico. Nella casa di via Rubicone un'indissolubile continuità di persone, di avvenimenti, di parole e di oggetti legava il presente a ciò che lo aveva preceduto.
Questo preambolo non vuole indulgere nell'aneddotica, che più di me potrebbe raccontare mia sorella Anita; ma giustifica il fatto che difficilmente il mio discorso su Prampolini potrebbe essere oggettivo e impersonale, e in tal caso rischierebbe di risultare anche artificioso.
Ed è la ragione per cui questa nota si avvale della licenza di un discorso che non può essere quello dello storico dell'arte, né quello del critico: i quali lavorano sulla provenienza storica delle forme prodotte dall'artista, sulla evoluzione e la comparazione con quelle di autori contemporanei e affini. L'obiettivo delle osservazioni che seguono è quello di chi vuole dare un suggerimento all'attenzione, proporre -per usare un termine di Cesare Brandi - una disposizione alla flagranza che scaturisce di fronte alle opere di Prampolini.
La flagranza: gli occhi che si aprono davanti al dipinto, l'impressione dello sguardo sul colore, sul disegno, sulle incertezze di cui si anima il quadro prima di ogni interpretazione sicura, di ogni acquietante riconoscimento in cui la rappresentazione viene catalogata e rinchiusa.
La materia. Il tema della materia torna in modo costante nelle opere di Enrico Prampolini. È presente in tutta l'estensione cronologica della sua produzione artistica, dal 1913 fino al 1956. Domina nella "messa in opera" dei materiali più disparati (stampati, tessuti, cordicelle, pietre, trine, terre colorate, minerali, fossili marini), che di volta in volta sono incollati, giustapposti, mimetizzati, esaltati. È palese nei titoli: ora in modo esplicito e diretto, ora indirettamente con riferimenti alla percezione e alla fisicità con cui la materia è vissuta (la cromofonia, le fisionomie, le concrezioni, i plasticismi). Crea un nuovo genere di rappresentazione: il polimaterico, che non è una collezione di materiali in un unico oggetto, il quadro. È un ribaltamento concettuale: la materia che si manifesta nella fenomenologia di una pittura che non è più oggettiva, e gli oggetti sono pretesti. La materia è l'alfa e l'omega, l'originario senza confini. Non conosce confini percettivi perché è disponibile alla sinestesia: il senso della vista è anche immagine tattile, il dinamismo dei volumi e dei piani si traduce in un ritmo spaziale, musicale, cromatico. La materia non conosce neppure confini di concetto: è paesaggio, ritratto, luce, forza; è simultaneità di tempo e spazio, architettura, concrezione cosmica, organismo umano. L'immanenza della materia nella pittura di Prampolini ha molteplici origini. La sua idea è creare una poetica dei nuovi concetti introdotti dalla biologia e dalla fisica del primo Novecento. Nella biblioteca di Prampolini si trovavano libri come Avviamenti alla teoria della relatività di Einstein di Rodolfo Lammel (in una vulgata del 1922) e Materia e luce del fisico Louis De Broglie (1940), cui si accompagnava una quantità di rilagli di articoli divulgativi scientifici. Né va dimenticata la presenza, a partire dal 1918-19, di Federico Pfìster, autore
di II metodo della scienza (Sansoni, 1948), un saggio filosofia), inserito nel quadro della fenomenologia e dell'evoluzionismo del primo Novecento. Nell'arte di Prampolini la materia è intervistata, ammirata, corteggiata: è tema di contenuto; ma è anche la flagranza espressiva del colore, della superficie, dei materiali che sorprendono chi si pone davanti alle sue opere.
La linea. Si potrebbe fare uno studio iconologico sulla linea nell'opera di Prampolini, trasversale alle pitture, ai disegni, ai bozzetti teatrali, agli schizzi architettonici, alla grafica per le pubblicazioni. La linea non disegna, guida; non è chiusura, perché nella poetica di Prampolini la percezione della figura non coincide con un margine, ma con la dilatazione che scompone e manda in diffrazione l'oggetto nell'ambiente.
Originariamente la linea è secessionista, è "la linea che canta", morbida, avvolgente, pronta alla curva, anche se la geometria non è ancora movimento ma esalta la staticità, marca uno spazio che fa di ogni figura un'architettura ieratica: non a caso il maestro dei primi momenti è Duilio Cambellotti. Poi la linea diventa futurista, cinetica, aggressiva, generatrice di vertici e di angoli, generatrice di superfici mobili e in fuga; la linea vortica, indipendente dalla funzione di contorno, di traccia delimitante. Quindi diventa linea meccanica, con la funzione di assemblare spazi geometrici che preparano il passaggio dalla superficie al volume; la linea è l'elemento visivo emblematico del passaggio dalla cinetica (la velocità pura del primo futurismo) alla dinamica (la velocità degli strumenti meccanici).
Con la fine degli anni venti e il passaggio dal mito della composizione meccanica a quello dell'organismo biologico, la linea riprenderà a cantare. Non perde nulla della sua energia e va a innervare forme nuove. Fino agli inizi degli anni quaranta la linea è l'oggetto di una poetica straordinaria: guida e invita alla danza le rarefazioni, le condensazioni, le forme contingenti dei corpi in movimento. Corpi che coincidono con entità materiche solide, piene di volume, di potenza, di gesto, di riferimenti antropomorfi. La linea dialoga con la materia, si agita intorno alle masse; non le definisce, le fa danzare.
Il tratto della linea si farà duro e spesso nella metà degli anni quaranta, nel periodo in cui la pittura di Prampolini manifesta una crisi espressionista picassiana. Ma anche in tale fase, nelle composizioni diventate sorprendentemente figurative (Cassandre, donne al mare) la linea è ancora protagonista dell'impianto dinamico delle immagini.
Questa funzione animatrice della linea rimarrà fino all'ultimo periodo, quello dell'astrazione pura, quando la linea viene ancora depurata di connotati semantici: è ancora la linea-forza, ma anche puro elemento visivo. Talvolta scompare nella giustapposizione delle superfici, nella tessitura e nell'incontro delle materie.
L'astrazione. L'impulso all'astrazione è un'altra costante nell'opera di Prampolini. Ma astrazione è una parola con cui il Novecento si è riferito a modi anche molto diversi di costruire rappresentazioni non figurative, e Prampolini la tempesta dell'astrazione l'ha attraversata in tutte le direzioni.
Se l'astrazione è la rappresentazione dell'oggetto realistico decantato dagli accidenti ed esibito nella struttura, se si fa coincidere la parola astrazione con il genere "astratto astratto", con la via induttiva che dal particolare va al generale, allora Prampolini è stato da subito pittore astratto. Si può dire di più: Prampolini è stato futurista perché quello è stato il modo storico contingente con cui egli ha potuto andare oltre la figurazione e rappresentare l'astrazione. Questa propensione all'astrazione è visibile nelle opere ed è teorizzata negli scritti sulla pittura e sul teatro, è consapevole opposizione non figurativa al figurativo. Negli anni dieci e venti del Novecento essere futuristi significava in primo luogo essere non figurativi; significava essere dalla stessa parte, partecipare alle stesse esposizioni, pubblicare nelle stesse riviste che riunivano in un fronte unico Mondrian e Picasso, Boccioni e Kandinskij, tutti discendenti del nuovo mondo inaugurato da Paul Cézanne.
Se l'astrazione - altra possibilità - è invece la rappresentazione di una grammatica arbitraria delle forme, se si fa coincidere questa parola con il genere "astratto concreto", con la via deduttiva che dal generale, da alcuni assiomi (forme e regole di sintassi compositiva) va al particolare (il singolo quadro costruito secondo quelle forme e quelle regole), allora di nuovo Prampolini è stato un pittore astratto. E di nuovo lo è stato da subito e in maniera radicale. Già dagli anni 1913-14, nelle opere e negli scritti con cui ne chiariva energicamente il senso, ha anteposto le forme (il cromatismo, la linea, il movimento ecc.) agli oggetti della percezione naturale. Da subito ha rifiutato il quadro come finestra sulla realtà, e ne ha fatto il luogo del "lirismo"; costruito non sull'imitazione (principio di plagio e di ottusità), ma sull'emozione lirica, sulla libera trasfigurazione della materia esposta all'attenzione dello spirito.
Il racconto. Le immagini di Prampolini (pitture, disegni, bozzetti di scena, pannelli decorativi) sono racconti. Prampolini è un narratore. Cosa racconta nelle opere, considerata la costante tensione verso la forma astratta? È una peculiarità dell'arte di Prampolini, una forma della sua modernità, quella di avere mostrato che la pittura astratta può essere narrativa.
Anche su questo tema dobbiamo necessariamente procedere per cenni. Prampolini non tralascia la narrazione realistica, in cui la fabula rappresenta personaggi, descrive secondo sequenze temporali, parte da un antefatto e attraverso eventi inattesi arriva a un epilogo. Nella pittura e nei disegni di Prampolini questo aspetto raffigurativo realistico è presente: racconta paesaggi montani e marini, raffigura bellezze femminili e corpulenze matronali, ritrae amici e artisti contemporanei, mette in scena azioni teatrali, ordina spazi architettonici. Ma la fabula limitata all'ambito dell'illustrazione e della descrizione è l'equivalente, sul piano narrativo, dell'oggetto nella rappresentazione naturalistica. Se il riferimento e la descrizione sono innegabili, altra è la narratività che contraddistingue la narrazione di Prampolini.
Ci riferiamo alla rivoluzione del racconto che ha investito il romanzo, la drammaturgia, e ancora la musica, la scultura del Novecento. La rivoluzione che sposta la narrazione sul linguaggio, sui mezzi espressivi, sulla capacità di raccontare facendo delle parole, dei suoni, dei colori, dell'intreccio i primi protagonisti del racconto. Nel testo che affabula, la descrizione degli eventi diventa un pretesto casuale e contingente. Non è un caso che, a fianco delle innovazioni che si sono affermate nella letteratura, nella pittura, nella musica, nel teatro - ambiti in cui Prampolini ha vissuto la propria vita - si sia sviluppata nel Novecento una narratologia (Paul Ricour, Algirdas Greimas) che ha ritrovato l'essenza della narrazione nella capacità che ha l'opera narrativa di esibire i propri mezzi: il racconto avvince perché narra prima di tutto se stesso, mostra la grana delle proprie articolazioni di voce, di timbro, di colore, di pigmento cromatico; esibisce le progressioni, le aspettative, le euforie, le disforìe del mezzo testuale.
Le opere di Prampolini sono racconti pazientemente studiati, sono l'esito di linguaggi e di trame provate e riprovate, come testimoniano le centinaia di fogli, le decine di taccuini, di appunti che egli ha lasciato.
Una storia, un filo d'Arianna, un racconto deve pur esserci: altrimenti, perché tante prove? Perché tante riscritture?
Non tutta la pittura astratta e narrativa; la linea analitica nel Novecento ha praticato anche il campo opposto: la mera grammaticalità, la pura estensione di paradigmi, l'astensione dalla fabula e dall'intreccio.
Prampolini, inventore della poetica della materia, si colloca nella linea della pittura narrativa. E ha raccontato in primo luogo quello che per qualche tempo ho avuto il privilegio di vedergli fare: preparare le tele, lasciare sulle superfici le tracce di una scommessa, i rischi, i dubbi, l'intima soddisfazione del risultato che ancora possiamo cogliere nelle sue opere.
Massimo Prampolini
Info Mostra
Prampolini futurista
Auditorium Parco della Musica
Musica per Roma
Roma
Ingresso libero
Catalogo edito da SKIRA, Ginevra-Milano, disponibile presso la mostra