IL FUTURISMO DI ROBERTO MARCELLO BALDESSARI
Maurizio Scudiero
PREMESSA
Questa mostra è dedicata a Roberto Marcello Baldessari, anche conosciuto come “Iras”, uno pseudonimo (usando le ultime quattro lettere del cognome lette a ritroso) che si diede all’inizio degli anni Venti per distinguersi dall’altro Baldessari (Luciano), che prima di darsi all’architettura fu, pure lui, giovane futurista e poi acquerellista.
Si tratta di una mostra composita, con opere (in parte inedite) che coprono un po’ tutto l’ampio spettro di sperimentazione dell’artista, dalle primi saggi di astrazione post-accademica sino alla breve stagione aeropittorica, della quale si conosce ancora poco.
Roberto Marcello Baldessari, dotato di una tecnica strepitosa, sia per i dipinti ad olio (nei quali usava l’antica tecnica delle “velature”), sia nei pastelli che nelle tecniche miste, ma anche solidissimo disegnatore, fa parte di quella folta pattuglia per lungo tempo definita sbrigativamente “secondo futurismo”, un termine introdotto a suo tempo da Enrico Crispolti per dimostrare la vitalità del Futurismo ben oltre la fatidica data del 1916, anno della scomparsa di Boccioni. In realtà, una lettura ideologica viziata, anziché puramente estetica, ha per lungo tempo relegato tutta quest’ampia area operativa che va dalla seconda metà degli anni Dieci sino almeno a tutta la prima metà dei Trenta, in una sorta di limbo, un purgatorio di colpe politiche attribuite più dall’ignoranza di documentazioni sommarie che da una reale conoscenza degli eventi.
Ciò ha permesso che gran parte dei capolavori del Futurismo se ne andassero all’estero, una sorta di “arte degenerata di casa nostra”, nei cui musei, ora, li dobbiamo chiedere con il cappello in mano, ogni qual volta che dobbiamo dimostrare che pure l’Italia nel corso del XX secolo ha avuto un’avanguardia.
In realtà le avanguardie furono due: da una parte il Futurismo, dall’altra l’ignoranza faziosa della critica del secondo dopoguerra: nessuno seppe fare di meglio.
1. CONTESTO NELLA STORIA DEL FUTURISMO | 1909-1915
Il 20 febbraio del 1909, a Parigi, il prestigioso giornale “Le Figaro” dava spazio, in prima pagina, agli enunciati in forma di manifesto, di Filippo Tommaso Marinetti, figlio di un facoltoso avvocato italiano, di vocazione poeta ed editore della rivista “Poesia”, e sanciva così l’inizio del Futurismo. Si trattava però solo del “lancio internazionale”, perché in Italia era già stato pubblicato una decina di volta, a partire dal 5 febbraio, su “La Gazzetta dell’Emilia” a Bologna. Ma perché la formula del manifesto programmatico? Questo fu un mezzo nuovo, ed accattivante per far conoscere le idee del Futurismo. Programmatico in quanto in esso si dichiarava “prima” quello che si sarebbe fatto “dopo”.
Un atteggiamento del tutto innovativo, perché toglieva la “creatività” artistica da quell’aura ancora bohémien dell’artista che coglie la sua ”ispirazione” nell’atelier, opponendovi invece un’attitudine del tutto moderna, e cioè quella della “progettualità”. Nuovo, ancora, perché, mutuando le prassi della pubblicità, era distribuito capillarmente a tutti, cioè non solo agli addetti d’arte, ma anche per la strada, porta a porta, lanciato dal tram, dal loggione dei teatri, e così via.
Marinetti, che era un poeta, uno scrittore, una disciplina elitaria in un’Italia ancora largamente illetterata e contadina, capì subito che se voleva fare presa sulla gente doveva usare i metodi dei “cantastorie”, cioè lavorare soprattutto con le immagini, ma con delle immagini del tutto nuove, a forti tinte che, nel bene e nel male, attirassero l’attenzione della gente. Per questo raccolse attorno a se, a sottoscrivere quel primo manifesto, uno sparuto gruppo di giovani pittori, ancora sconosciuti, e cioè Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Gino Severini e Luigi Russolo, accompagnati da un artista già più maturo ed esperto che era Giacomo Balla (era stato “maestro” di Boccioni e Severini).
Ma, come sempre accade, la teoria era molto più veloce della pratica, e di fatto quando fu pubblicato quel manifesto e pure quello che seguì di lì a poco, dedicato appunto alla “nuova” pittura futurista, una nuova pittura futurista non esisteva ancora. Essi presero perciò a modello le opere dei cubisti, cui aggiunsero i nuovi concetti della velocità e della macchina.
Ben presto si scoprì di come Marinetti avesse visto giusto, sia per l’idea del Futurismo, che in breve divenne popolarissimo in tutta Europa, sia nella scelta di quei giovani artisti, tra i quali emerse prepotentemente la personalità di Boccioni, che si rivelò dotato non solo di tecnica pittorica ma anche di idee e progettualità teorica. Ciò permise a Marinetti di concentrarsi meglio nei settori a lui più “cari”, appunto quelli letterari della prosa e della poesia, lanciando un manifesto dietro l’altro ed avviando una nutrita serie di edizioni futuriste, e inoltre occupandosi anche di Teatro, e organizzando le famose “serate futuriste”.
Queste, per l’epoca furono un evento inimmaginabile: una sorta di guerra tra poesia e ortaggi. I futuristi, da una parte, sul palco, che tra il serio ed il provocatorio, declamavano i manifesti e le loro liriche, e il pubblico dall’altra che fischiava, ululava e lanciava ortaggi. Spesso, le serate proseguivano anche fuori dai teatri, con scazzottate che finivano quasi sempre in cella. A Boccioni, dunque, rimase “in carico” tutto il settore delle arti visive. Ma se questa, a prima vista, sembrò una scelta felice, appunto nell’ottica della suddivisione dei compiti, alla lunga, per l’immagine del Futurismo risultò in parte anche penalizzante, e questo perché la debordante personalità boccioniana divenne il punto di riferimento privilegiato nella lettura critica (a posteriori) del Futurismo. Infatti, l’eccessiva attenzione critica su Boccioni, per molti anni non permise di cogliere appieno il ruolo non secondario di Balla, a lungo sottovalutato.
Balla, già dal 1912 e sin dentro il 1914 si stava occupando non di “dinamismo plastico” (cioè di artifizi ottico-pittorici applicati ad una base figurativa) quanto piuttosto di “studi cinetici” sul movimento, sul rumore, e persino sui fenomeni astronomici, con il ciclo di Mercurio che passa davanti al sole, del 1914. Di lì a poco siamo al ciclo delle pitture interventiste del 1915, che appunto affiancano le manifestazioni di piazza per l’ingresso dell’Italia in guerra contro l’Austria, e si sostanziano nel rapporto cromatico di forme plastico-dinamiche ispirate al tricolore italiano.
È in questo ciclo, soprattutto, che la riconoscibilità e il riferimento ad oggetti reali, è del tutto assente, sostituito, piuttosto, da pure forme mentali, da astrazioni analogiche, che rinviano a concetti piuttosto che a fisicità relative. Un livello di elaborazione “non oggettiva”, cui lo stesso Boccioni non giunse mai.
Ed è fin troppo ovvio che qui siamo alle vere origini dell’astrattismo italiano, che vede appunto Balla in prima linea assieme a Depero, al nostro Baldessari e a pochi altri, sempre futuristi, fra i quali Enrico Prampolini e Gino Galli.
2. FORMAZIONE FUTURISTA DI ROBERTO MARCELLO BALDESSARI
MOMENTI DI RIFLESSIONE
Roberto Marcello Baldessari approda all’Accademia di Belle Arti di Venezia nel 1908, sollecitato a quella scelta dal prof. Alvise Comel, che insegnava alla famosa Scuola Reale Elisabettina di Rovereto, dalla quale uscirono, fra gli altri, anche Depero, l’altro Baldessari (Luciano), Gino Pollini, Fausto Melotti e in seguito anche Carlo Belli. Baldessari fu così introdotto nell’ambiente veneziano di Ca’ Pesaro, dove si agitava la prima “contestazione” di allora verso la Biennale di Venezia, ritenuta troppo conservatrice. In questo modo egli si trovò al confronto di due possibili modalità artistiche: da una parte gli insegnamenti “accademici” di Guglielmo Ciardi che rappresentava la “tradizione”, la continuità con il passato e dall’altra, invece, i fermenti dei giovani sperimentatori di Ca’ Pesaro, primo fra tutti Gino Rossi che, come un fauve, usava i colori quale arma “contundente”.
In quell’ambiente Baldessari incontrò e conobbe tanti giovani artisti di allora, come Arturo Martini e Ugo Valeri. Tuttavia la ricerca dei lagunari se da una parte gli insegnò ad osare, a sperimentare senza paura, dall’altra non lo attrasse più di tanto. Certo la loro frequentazione ne influenzò via via la tavolozza, che divenne sempre più accesa, mentre il segno andò a sua volta verso una progressiva disgregazione che potremmo definire post divisionista che è ravvisabile più di altri nei suoi pastelli, ma quella filosofia dell’isolamento, del ritiro sulle isole della laguna, per lavorare in silenzio non era per lui, che era invece una natura errabonda. Si era, infatti, alla vigilia di una svolta. Ben oltre Venezia si muovevano anche altri fermenti. Baldessari sicuramente aveva avuto sentore della poetica futurista che già da qualche anno stava infiammando le giovani generazioni.
Nella sua stessa Rovereto già dal 1913 vi era un circolo futurista animato da Depero e proprio a Venezia vi era stato il lancio di manifesti futuristi dalla torre dell’orologio, l’8 luglio 1910, con il proclama Contro Venezia Passatista, fatto di cui certo era a conoscenza. Inoltre, con il 1914, i futuristi s’impegnarono anche sul versante politico,avviando un’insistente campagna “interventista”, per l’ingresso dell’Italia in guerra contro l’Austria e la liberazione di Trento e Trieste. L’arte stava insomma divenendo un fatto non solo figurativo ma propriamente esistenziale, totale.
È proprio in questo periodo, e in questo contesto sociale che, anche in seguito al ricongiungimento con la famiglia a Venezia per sfuggire al precipitare degli eventi bellici, nei primi mesi del 1915 avviene il trasferimento a Firenze. «Già nel 1915 frequentavo il Caffè Giubbe Rosse – racconta Baldessari in uno scritto autobiografico – ebbi i primi contatti con i futuristi e il dono di tante care amicizie: Marinetti, Settimelli, Chiti, Lega, Conti, Campana, Nannetti, Venna e Rosai».
Baldessari, dunque, sposa la causa del cosiddetto “Futurismo fiorentino” che seguiva il metodo analitico boccioniano, in contrasto con le ricerche analogiche portate avanti in area romana da Balla e Depero. I suoi principali artefici erano, da una parte, Ardengo Soffici che operava una mediazione tra Cubismo e Futurismo e, dall’altra, Ottone Rosai che perseguiva invece una lettura “popolare” del programma futurista, con accenti vernacolari. Con il passaggio dall’ambiente veneziano, tutto sommato ancora “lontano” dal Futurismo, a quello fiorentino che invece sembrava una polveriera in procinto di esplodere, Baldessari, di là da una prima adesione “ideale” ed emotiva, al Futurismo, si trovò subito nella necessità del “definire” un proprio stile futurista.
Certo non lo poteva improvvisare da un giorno all’altro ma che dovette costruire via via, sperimentazione dopo sperimentazione, partendo da un “modello” che si era dato e che, all’inizio (come per tanti giovani futuristi), fu appunto il lavoro di Umberto Boccioni.
A questa prima fase, che potremmo definire “propedeutica”, appartengono una serie di lavori che si possono definire come boccioniani, per l’evidente influenza stilistica e cromatica del maestro futurista, ma che in molti casi vanno oltre il lavoro del maestro, coniugandolo cioè con le ricerche “astratte” portate avanti, proprio in contrapposizione al lavoro di Boccioni, da Balla e Depero a Roma. In altre parole, questi primi lavori di adesione al Futurismo di Baldessari vanno propriamente ad inquadrarsi nella breve stagione di “astrazione futurista” del 1914-16, che anticipa di quasi un ventennio la cosiddetta “prima” esperienza astratta italiana, e cioè quella degli “astratti di Como”. Ma si tratta di un’esperienza fugace, forse perché troppo “avanti” per quegli anni, esperienza che del resto lo stesso Depero abbandona già sulla fine del 1916, proprio per l’evidente problematicità a collocare nel mercato italiano lavori non-figurativi. Baldessari, da parte sua, si riavvicina alla figurazione, in particolare prendendo a modello il lavoro di Rosai e quello di Notte come pure una montante rilettura di Cézanne, caratterizzata da una evidente “spinta” volumetrica.
Inizia così la frequentazione di caffè e cabaret quali luoghi d’incontro e ispirazione, coniugando la sua ricerca formale con le tematiche più vernacolari. In particolare i cabaret, ed il tema teatrale in genere, diviene un filo conduttore che per anni attraverserà la produzione dell’artista. Forse per il gioco delle luci, nel contrasto fra la scena illuminata e la platea al buio; o per il continuo dinamismo, nel vorticoso movimento di attori, ma soprattutto di ballerini; o ancora per il forte cromatismo, negli sgargianti colori dei costumi e del trucco delle ballerine; o infine per le suggestioni dell’orchestra, e delle chanteuse. Insomma, un vortice di suoni, luci e colori cioè, per dirla con una parola sola, il “dinamismo”. Ma con un’avvertenza. Quella di Baldessari è una posizione “passiva” nei confronti del teatro e dello spettacolo. Una fruizione di sensazioni e impressioni da riportare sulla tela da spettatore, un po’ alla maniera di un Toulouse-Lautrec, che manca dunque di quella progettualità attiva che porta invece un Depero ad un coinvolgimento ben maggiore, cioè anche alla realizzazione di costumi e coreografie teatrali. Baldessari, però, a differenza di Depero, che si impegna con i Balletti Russi in lavori di scenotecnica e costumistica, è soprattutto un pittore, e vive appunto il teatro nella sua trasposizione di memoria, secondo quelle componenti cromatiche, dinamiche e sonore più sopra esposte. Sintomatica di questa visione, e qui esposta, è Eden, del 1916, che fissa, sinteticamente, un momento di atmosfera e dell’azione scenica. Ma oltre a questi vi è certo una lunga fila di titoli che denunciano chiaramente il suo profondo interesse per il Teatro. Ed al tema teatrale, come accennavo, è strettamente connesso il rapporto luce-ombra come elemento di “costruzione” dello spazio tridimensionale che Baldessari scandisce secondo un rigoroso geometrismo elementare.
È infatti l’andamento lineare, diagonale, della luce, l’elemento “ordinatore” che governa gran parte delle opere dell’artista sotto forma di “tagli” o “linee-forza” che scompongono figure, oggetti e paesaggi.
È in sostanza, quello teatrale, un approccio che Baldessari introduce quale visione preferenziale del mondo, visto appunto come una “teatralizzazione dello spazio”, e forse anche quale gioiosa alternativa alle opere di dichiarata meditazione sociale realizzate negli anni bellici, oppure agli indugi vernacolari nelle osterie, come in Osteria toscana, del 1917. Quanto alle opere di piena adesione alla linea del Futurismo toscano va segnalato Marzocco, del 1918, realizzato appunto con la tecnica mista della pittura stesa su di un collage di giornali, che rinvia alle mediazioni di Soffici dai papier-collée di Picasso.
Ma, come già a suo tempo annotava Maria Drudi Gambillo, curatrice assieme a Teresa Fiori degli Archivi del Futurismo, spesso le sue opere si pongono sulla linea della continuità, riferendosi esplicitamente a quelle dei primi firmatari dei manifesti futuristi, piuttosto che a quelle dei fiorentini. E questo ad ennesima conferma della sua “indipendenza di fondo”, cioè il suo non aderire mai completamente ad una linea, ma piuttosto lo sperimentare, prendere ciò che serve, e proseguire oltre. Lo conferma, ad esempio, il pastello Ritratto di donna (Dafne), del 1916, di evidente impianto severiniano.
Alla primavera del 1916 va ascritto il primo dei suoi soggiorni a Lugo dove l’artista fu ospite di Nino Pasi, un futurista lughese conosciuto a Firenze e suo amico. Si tratta di soggiorni significativi perché a Lugo in quel periodo vi era un certo cenacolo futurista, con appunto il Pasi, F. Balilla Pratella che spesso invitava vari futuristi come F.T. Marinetti, Carrà, Prampolini, Soffici, Funi, Conti, ma anche altri importanti personaggi della cultura, come il maestro Mascagni, D’Annunzio, Morandi, Trombadori, ecc. Insomma un clima stimolante per chiunque, figuriamoci per il giovane Baldessari, il quale, però, rimase maggiormente colpito dall’avvenenza della maestrina delle elementari locali, tale Dafne Gambetti, di due anni più giovane di lui ma, purtroppo, già sentimentalmente legata proprio all’amico Pasi.
Non gli rimarrà quindi che immortalarla appunto in un gruppo di opere la cui entità nel corso degli anni è andata via via ingrossandosi, proprio a conferma di quanto fosse stato colpito dalla sua bellezza. Tra i tanti realizzati abbiamo in mostra quel Donna + finestra, del 1916, che per anni era stato ritenuto la prima opera futurista di Baldessari. Va certo detto che Baldessari l’ha ritratta, diciamo così, come la vedeva appunto un pittore futurista, con tagli dinamici e prospettive multiple, il che non sempre coincide con l’idea, appunto, di bellezza secondo i canoni tradizionali. Ma certo il Futurismo aborriva il romanticume e le sdolcinerie, e quindi non vi era spazio per un’idea di bellezza assoluta.
Pure fin troppo evidente è, poi, la relazione tra il soggiorno lughese con altre opere, questa volta di paesaggio, come l’incisione Primavera in Romagna, in seguito ripresa nel grande dipinto Primavera (1919) del Mart, presente in mostra. Vi è poi L’arrivo del treno alla stazione di Lugo, un pastello con una bellissima scena di dinamismo meccanico e di folla. Credo si possa ben affermare che fra ritratti, paesaggi e tematiche ambientali, con le sole opere di Baldessari riconducibili ai vari soggiorni lughesi, e poi alla memoria di visione di quelle esperienze, si potrebbe già allestire una sua mostra personale di notevole impatto visivo e cromatico.
Nel frattempo la guerra strazia l’Europa, e molti artisti non vi rimangono insensibili. Nell’arte di Baldessari, in particolare, al tema del teatro subentrano via via gli interessi sociali, come testimonia il grande dipinto Treno dei feriti, del 1918 (della Fondazione Museo Civico di Rovereto), che introduce una “meditazione umana” sul tema della guerra futurista, e che certo prende le distanze dagli scoppiettanti proclami interventisti del futurismo ortodosso, avvicinandosi piuttosto ad una revisione ideologico-sociale che trova riscontro in un acceso “sfogo” di Rosai, e che il futurista roveretano ricorda nei suoi scritti autobiografici.
Baldessari lo aveva accompagnato alla stazione di Padova, in partenza per il fronte, e Rosai gli raccontò di avere ucciso un soldato-pittore, mostrandogli pure un piccolo taccuino fitto di scritte e di disegni: «Leggi, tu che sai il tedesco – gli disse porgendoglielo – capisci, voglio mandarlo ai suoi dopo la guerra, voglio dir loro che non ne ho colpa. È venuto giù come una valanga, non potevo scansarlo neanche a volerlo, capisci. Ed era un pittore come noi, un fratello! Capisci, devo ritornare lassù ad ammazzare altri fratelli, capisci!... Porca guerra sporca!».
Per Baldessari fu l’inizio di una sorta di incrinatura, una falla nel sistema che modificò i suoi rapporti con l’ortodossia futurista. Di lì a poco l’artista si trovò di fronte agli ovvi esiti linguistici del futurismo fiorentino che, esaurito il suo percorso analitico, si volse decisamente alla rimeditazione di Cézanne (la cosiddetta crisi figurativa neo-cézanniana) e quindi si avviò ad una greve ricostruzione plastica vicina alla poetica di Novecento, ad un ritorno al rigore, al primitivismo, all’ordine appunto, che ha caratterizzato un po’ in tutta Europa il generale ripiegamento del primo dopoguerra dopo i furori delle avanguardie. Ma è, questa, una via che Baldessari a differenza di un Primo Conti, percorse con alterne vicende, e con bruschi scarti di direzione che non comportarono una precisa svolta linguistica, ma piuttosto percorsero varie strade, proprio grazie al suo continuo viaggiare che lo pose a contatto con la più colta cultura europea.
E quel vento di revisione, che soffia sull’Europa artistica, trasforma ansie e furori delle avanguardie in angosce esistenziali, nella ricerca di un punto fermo, di un riferimento, che viene identificato nel “ritorno al mestiere”, ad una solida progettualità. Così si guarda a Giotto, a Paolo Uccello, a Piero della Francesca.
Nel 1916 Picasso, dopo aver frantumato ogni ordine nell’immagine, si reca in “pellegrinaggio”, a Pompei alla riscoperta del Classicismo. Nel febbraio del 1919, alla Galleria Bragaglia di Roma, Giorgio de Chirico con i suoi manichini metafisici scuote il quartier generale del Futurismo. Insomma è alquanto evidente che da questo momento anche il Futurismo non sarà più lo stesso. Finita dunque la guerra, all’inizio del 1919, si tiene a Milano l’Esposizione Nazionale Futurista, dove Marinetti raduna il meglio dei futuristi superstiti e le giovani leve per rilanciare il Futurismo del dopoguerra, dalla quale il movimento era uscito decimato: morti Boccioni e Sant’Elia, Carrà transfuga verso la Metafisica, Sironi in rotta verso il futuro Novecento e un po’ persi per strada Severini e Russolo.
Baldessari è invitato e vi espone quattordici dipinti che fanno colpo in particolare su di un facoltoso collezionista svizzero, Alfred Hess, che s’innamora della sua pittura e acquista tutte le sue opere in mostra. Inoltre diviene il suo mecenate sino a tutto il 1924, accaparrandosi le opere migliori del periodo.
Ricorda Baldessari di quel periodo: «...Nell’ottobre del 1919 organizzammo con Marinetti, a Milano, la Prima Mostra Nazionale Futurista del dopoguerra. Erano presenti tutti i futuristi ed io vi partecipai con una decina di opere. Alla mostra vendetti tutti i miei dipinti esposti ad un amatore svizzero, Alfred Hess, al quale rimasi poi legato da lunga ed affettuosa amicizia. Certo i prezzi allora erano modesti: nessun quadro superava le duecento lire!».
3. GLI ANNI VENTI TRA DADA E ASTRAZIONE GEOMETRICA
«Nel 1920 – ricorda Baldessari in un suo scritto di memorie – ebbe inizio il mio vagabondaggio attraverso l’Europa, vagabondaggio che doveva durare quasi vent’anni. Ed anche in questo inquieto periodo gli incontri ed i contatti con gli artisti non mancarono. Conobbi a Berlino Liebermann, Archipenko, Beckman ed Herwarth Walden, direttore di “Der Sturm”. Ad Hannover strinsi amicizia con gli artisti della Kestner-Gesellschaft (gli astrattisti di Hannover): Justus Bier, Friedrick Vordemberge-Gildewart e Kurt Schwitters... A contatto con questi artisti spinsi anche i miei limiti pittorici ai confini dell’astratto, e solo al mio rientro in Italia, nel 1925, rientrai nel figurativo».
Poté così verificare di persona come altri movimenti, quali il Costruttivismo, De Stijl, Dada, e lo stesso lavoro di Kandinskij, avessero già da tempo superato la poetica futurista, perlomeno come Baldessari la intendeva. All’inizio degli anni Venti, dopo alcune opere di sperimentazione volumetrica che stanno a metà strada tra Futurismo e Novecento (come Figure al caffè, del 1921-22, qui esposto), Baldessari si trasferì per lunghi anni in Germania, dapprima a Hannover quindi ad Altona, presso Amburgo.
Nella prima città tra il 1922 ed il 1923 frequentò assiduamente Kurt Schwitters collaborando all’opera Merzbau, una sorta di scultura-costruzione che l’artista tedesco aveva realizzato all’interno della casa, e che cresceva attraverso i piani, quasi fagocitandola. E sono di quegli anni una serie di collage futur-dadaisti (come La Sprea, Berlino notte e Dada, qui in mostra) che testimoniano la grande apertura di Baldessari alla poetica Dada. A Hannover, fondamentale fu pure l’incontro con Frederick Vordemberge-Gildewart che lo introdusse nell’area del “Die Abstrakten Gruppe”, la cui frequentazione produsse verso il 1923-1924 una nuova stagione sperimentale con lavori di natura astratto-geometrica. Insomma, due incontri fondamentali per Baldessari, specie considerando il fatto che, qualche anno dopo, nel 1934, a Milano in occasione della mostra di Gildewart alla Galleria del Milione, il critico Siegfried Giedion profeticamente scriveva che «quando qualcuno, fra una cinquantina d’anni, si domanderà quale pittore di questi nostri tempi abbia vissuto nella città di Hannover, non saranno che due i nomi rimasti: il pittore Vordemberge-Gildewart e il pittore e poeta dadaista Kurt Schwitters».
A questo punto, essendo giunto quasi ai limiti delle sperimentazioni d’avanguardia del tempo, Baldessari subì una sorta di crisi di crescita: aveva provato tutto, con convinzione, ma nulla di tutto ciò sentiva come la sua vera strada. Uniche certezze erano il suo innato amore per la pittura, da una parte, e le necessità vitali dall’altra. Infatti, nel corso di un temporaneo rientro in Italia, verso il 1925, le sue sperimentazioni dadaiste e astratte furono per nulla comprese, e il futurismo stesso sembrava quasi caduto in disgrazia. Per sopravvivere non vi era che una strada: il definitivo ritorno al figurativo. Si dedicò quindi alla pittura di paesaggio e all’incisione divenendone un rappresentante tra i più qualificati. Dopo un breve soggiorno a Roma iniziò a girare l’Europa: Spagna, Francia, Paesi Bassi e infine la Germania dove si trattenne per lungo tempo.
Gli anni Venti per le avanguardie, ma soprattutto per il Futurismo, celebrano il trionfo della “Macchina”. In Francia si pubblica da qualche tempo «L’Esprit nouveau», dove Ozenfant e Le Corbusier portano avanti la loro idea “purista” di un macchinismo pittorico verso il quale mostrò notevoli convergenze la pittura di Depero degli anni Venti. Nel 1927, a New York, è l’apoteosi dell’Era Meccanica appunto con la monumentale “Machine Age Exhibition”, il cui catalogo è opportunamente illustrato da una copertina di Leger. Poi, ancora nel 1927, da Bragaglia va in scena il pessimista L’Angoscia delle macchine, di Ruggero Vasari, mentre il decennio si chiude sul manifesto (1928) promosso da Azari Per una società di protezione delle macchine: «La macchina ha arricchito la nostra vita... eliminerà definitivamente la povertà e quindi la lotta di classe», profetizzava vanamente.
Quanto a Baldessari, tra il 1934 ed il 1937, è richiamato all’impegno futurista dall’amico Ruggero Vasari, a Berlino, in occasione del lancio internazionale dell’Aeropittura, voluto da Filippo Tommaso Marinetti con una mostra itinerante in Germania ed Austria, che toccò Amburgo, Berlino e Vienna.
Ma il Futurismo era profondamente cambiato da quando vi militava nei primi anni Venti. Nel frattempo, infatti, nel 1929 Marinetti aveva dato una decisa sterzata al movimento, volgendo le sue attenzioni non più alla “velocità terrestre” ma piuttosto a quella “celeste”.
Nel corso degli anni Venti l’Italia aveva primeggiato nel cielo con vari record: di altezza, di velocità di distanza, e il Futurismo, in quanto spirito della modernità e della velocità non poteva rimanerne insensibile. Ecco dunque nascere l’Aeropittura, e di lì a poco l’Aeropoesia, l’Aeroplastica e l’Arte sacra futurista quale ovvia conseguenza del distacco dalle contingenze terrene prodotto dalle vere esperienze di volo degli artisti. E dunque Baldessari, al suo rientro nel Futurismo, dovette rivedere i suoi parametri. Se da giovane il suo punto di riferimento fu Boccioni, ora si doveva riferire ai nuovi protagonisti dell’Aeropittura, vale a dire a Prampolini e Dottori.
Ma giunti al 1937 fu chiaro che anche l’Aeropittura aveva perduto l’iniziale afflato cosmico per scadere in una cruda documentazione di azioni di guerra aerea. La “Notte dei cristalli” fece il resto. Baldessari non si riconosceva più in questo ruolo e quindi si defilò nuovamente, e stavolta per sempre, dedicandosi alla pittura di paesaggio e all’incisione. Anni dopo, ormai da tempo ripiegato nella tradizione, le sue ultime parole furono purtroppo avvolte da un crudo pessimismo.
«Ho dietro di me – scriveva nel maggio del 1962 – «una lunga esperienza artistica. Ed è appunto per questo che le mie conclusioni non possono che essere amare. Stiamo avvicinandoci al dissolvimento di una cultura grandiosa e plurisecolare? Temo che la profezia dello Spengler sull’Untergang des Abendlandes [Baldessari cita il libro “Il Tramonto dell’Occidente” (di Oswald Spengler, 1918), che concepiva l’avanzata della modernità anche come una decadenza della cultura occidentale] si avveri: temo che le future generazioni di supertecnici e di cosmonauti non avranno più interesse per l’arte, né chiodi per appendere alle loro pareti di cristallo e acciaio, i manufatti dei futuri Maestri».
Oggi, a oltre sessant’anni da quelle parole, possiamo assicurare che Baldessari si sbagliava. Possiamo affermare che, nonostante i moderni palazzi ed i musei siano costruiti con pareti di “cristallo e acciaio”, le opere d’arte hanno sempre uno spazio privilegiato. Ed oggi specie le sue opere, e quelle di molti altri futuristi, dopo un lungo periodo di oscurantismo ideologico, negli ultimi anni godono di sempre maggiori considerazione, critica, museale e mercantile.
DALL’ASTRAZIONE AL FUTURISMO
RITRATTI
BAR E CABARET
LA MACCHINA E LA VELOCITA’
PAESAGGIO URBANO E NON
LA GUERRA
UNO SGUARDO ALLE AVANGUARDIE
Info Mostra
BALDESSARI FUTURISTA
Dall’astrattismo al dinamismo
Museo della Città
via Calcinari, 18
Rovereto (TN)
6 aprile - 8 settembre 2024
Info
Fondazione Museo Civico di Rovereto
T 0464 452800
museo@fondazionemcr.it